Le scene che abbiamo visto nello sfratto di via Michelino sono indegne e inaccettabili.
Sfrattare famiglie con i reparti antisommossa assieme al proprietario che prende a mazzate i muri non può essere considerato normale, ma anzi una deriva violenta della difesa della proprietà privata a scapito della dignità umana e del diritto alla casa di coloro che, peraltro, pagavano regolarmente il canone di locazione. Una famiglia che è stata trattata come fossero dei criminali.
Il diritto alla casa, nella nostra città e non solo come è evidente a tutti, è sempre più messo in discussione dalla rendita, la speculazione, l’assenza di risorse, un approccio ideologico che parte dalla difesa di chi ha già qualcosa, invece di mettere in condizione tutte e tutti coloro che non ce l’hanno di avere un tetto, ovvero la condizione minima per poter vivere degnamente.
Gli sforzi che questa amministrazione e la Vicesindaca stanno facendo su questo fronte sono immani, per numeri, azioni, progetti e risorse messe in campo rispetto alla desolazione del panorama nazionale e la sottovalutazione passata del fenomeno. Non lo diciamo da oggi, ma da anni: gli sfratti per finita locazione in un contesto dove il mercato rialza ogni giorno in alto i canoni (spinto anche e non solo dal boom degli affitti brevi turistici), rischiavano di essere una piaga sociale. Un rischio che è già realtà e sarà un fenomeno sempre più diffuso, se non saremo messi nelle condizioni di affrontarlo con gli strumenti adeguati. Un fenomeno che espelle i cosiddetti working poor, lavoratori e lavoratrici che pur avendo un contratto a tempo indeterminato non riescono più a sostenere i canoni di locazione. Figuriamoci le precarie e i precari, i tempi determinati, i contratti a chiamata, le persone razzializzate, gli studenti e le studentesse, che non hanno dietro famiglie capaci di sostenere i costi.
Non abbiamo gli strumenti per arginare tutto questo da soli. Non possiamo regolamentare il mercato se non vincendo in tribunale contro i ricorsi, non possiamo mettere un tetto agli affitti, non possiamo mettere in campo una moratoria degli sfratti.
Non possiamo nemmeno far costruire abitazioni in terreni agricoli e far espandere ancora la città come si faceva in passato alimentando la crisi climatica.
Possiamo però proseguire sulla strada che abbiamo intrapreso di tornare a fare edilizia residenziale sociale, ridurre a zero lo sfitto del patrimonio di edilizia popolare e non venderne più, e possiamo lottare, ognuno e ognuna facendo la propria parte, affinché chi ha il potere legislativo e il potere di ordine pubblico mettano mano al portafoglio del paese, direzionando le risorse dove servono, e facendo abbassare i manganelli.
Tutto questo non porta consenso, lo sappiamo. Basta guardarsi attorno, leggere le centinaia di commenti sui social sullo sfratto di oggi e in situazioni simili: un paese e una città costituita per oltre i due terzi da proprietari di casa danno la cifra degli interessi più semplici da difendere, che coincidono anche con la più ampia fetta di elettori. Ed è quello che fanno principalmente le forze di estrema destra che governano il paese, difendendo la rendita e tagliando contemporaneamente fondi ai comuni proprio sul diritto all’abitare.
Bologna è sempre stata, come raccontano le lotte per la casa dagli anni ‘60 in poi, luogo dove gli interessi dei proprietari confliggevano con coloro che sognavano di venire qui. Era una rendita sugli studenti e le studentesse, i lavoratori e le lavoratrici che comunque erano i protagonisti del mercato e della trasformazione della composizione sociale, produttiva, politica della città. Da qualche anno siamo in un fenomeno nuovo, globale, che attraversa anche Bologna.
Non viviamo in una bolla, viviamo però in una delle città più attrattive e con la maggior qualità della vita in Europa, in un sistema dove la competizione la vince chi è più ricco degli altri.
Quello che è successo oggi rafforza ancor di più le nostre convinzioni e la nostra linea politica.

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