Oggi in Consiglio comunale abbiamo ricordato Claudio Lolli con un intervento del nostro Federico Martelloni – Consigliere Comunale.

Il 17 agosto se n’è andato, dopo una lunga malattia, ma molto prima del tempo, Claudio Lolli. Claudio era nato a Bologna in un giorno di marzo (“o di aprile non so”) del 1950. È stato un poeta, uno scrittore, un professore di liceo e – come tutti sanno – un grande, straordinario cantautore.
Per merito di Valerio Monteventi ho avuto il privilegio di conoscerlo, da vicino, sia in veste di docente, sia nei panni di cantautore, dando un corpo a quella voce “da festival del sottosuolo” che conoscevo e amavo come poche altre.
Lolli ha saputo trattare, con una spietatezza indirizzata ai potenti e coloro che potenti non sono, ma sono ossequiosi verso i potenti quanto può esserlo la disprezzata “piccola borghesia” dell’omonima celebre canzone, una critica spietata, inferiore solo a quella che riservava a se stesso, trattando i temi più profondi dell’essere umano: l’amicizia, l’amore e la morte, la desolazione e la crisi, il disagio dell’adolescenza (Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita) e quello della maturità, oltre alle più importanti questioni sociali e culturali del suo tempo, che è poi anche il nostro.
Il suo battesimo avviene – come per tanti cantautori bolognesi – nel santuario laico dell’Osteria delle Dame, nei primi anni settanta. Non per caso, è Francesco Guccini che lo introduce alla EMI Italiana, la casa discografica che gli fa firmare un contratto, per poi pubblicare ben 4 dischi tra il 1972 e il 1976: Aspettando Godot (1972); Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973); Canzoni di rabbia (1975); Ho visto anche degli zingari felici (1976). Nel primo disco, Aspettando Godot (1972), arrangiato da Marcello Minerbi, c’è già, ancorché in nuce, molto, quasi tutto: l’impegno politico (in Borghesia e in Quelli come noi), il disagio esistenziale (ne L’isola verde o in Quanto amore), la critica all’istituzione familiare (in Quando la morte avrà, dedicata al padre), l’anticlericalismo (ancora in Quelli come noi), e gli interrogativi più profondi sul senso stesso della vita (Aspettado Godot, per l’appunto).
Quella voce, “da festival del sottosuolo… così piena di granchi, di ragni di rane e di altre cose un po’ strane” (come la definì, impietosamente, il suo titolare, in un brano del 1977, Autobiografia industriale ) ci ha regalato un umanesimo metropolitano intriso di angoscia, di rabbia… ma anche di sogno, desiderio e speranza. Un canto di speranza rivolto a tutti quegli “zingari felici”, liberi e anticonformisti, che vogliono cambiare il mondo; quelli che erano o sono disposti a far propria l’esortazione delle ultime quattro strofe dell’omonima canzone, strofe liberamente rielaborate da “Cantata del fantoccio lusitano” di Peter Weiss: “Siamo noi a far ricca la terra/ noi che sopportiamo/ la malattia del sonno e la malaria… Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera/ riprendiamoci la vita/ la terra, la luna e l’abbondanza”. Un testo, quello di Weiss, che denunciava il colonialismo portoghese in Angola e che Lolli mutua in inno universale alla liberazione e alla fratellanza. Quanta raffinatezza culturale e, al contempo quale e quanta tensione ideale in quel richiamo alla “Cantata di un fantoccio lusitano”, l’anti-poema della conquista dell’Angola da parte dei colonizzatori portoghesi (dai giorni della scoperta di Diego Cao fino agli anni Settanta del secolo scorso) messa in scena da Giorgio Strehler: un j’accuse contro i sistemi adoperati in quella parte di sud del mondo dai fascisti salazariani, contro la brutalità e l’ipocrisia dell’azione colonizzatrice, capace di presentare, su piani paralleli, la pretestuosità delle intenzioni civilizzatrici e le ragioni dello sfruttamento economico del territorio e delle popolazioni che lo abitano.
Eppure, – ha osservato un critico del calibro di Loris Zuttion – se dimentichiamo che sul palcoscenico si sta raccontando la drammatica storia di una parte di mondo e trasferiamo narrazione e personaggi da una situazione storica ben precisa ad un piano metaforico, “riconosciamo come la voce proveniente dal mostruoso fantoccio possa tranquillamente essere quella dei padroni autentici delle società” cantate da Claudio Lolli, o della società odierna che Claudio non può più cantare: quella dei porti chiusi, dietro i quali si celano gli egoismi dei popoli ben nutriti, la spocchia dei potenti per disposizione divina, del padrone verso il servo, dei fortunati e forti verso gli inermi e i poveri, di chi respinge o “integra” con ignominia i respinti alle frontiere o i nuovi schiavi agricoli e metropolitani. Speranza, dunque, ma anche indignazione: il 4 agosto del 1974, Lolli è in vacanza quando salta in aria l’Italicus. Dodici morti e cinquanta feriti per una strage destinata ad approdare nel porto delle nebbie dei misteri d’Italia, come accadrà alla strage del 2 agosto di 6 anni dopo. “Agosto” è la rievocazione di quel “pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato”. Un testo lucido e durissimo (“Si muore di stragi/ più o meno di Stato”), su un caso frettolosamente archiviato, come quello della morte dell’anarchico Pinelli a Milano (“niente è cambiato/ da quel quarto piano in questura/ da quella finestra/un treno è saltato”). Non meno drammatica, nonostante il timbro da filastrocca popolare, è “Piazza, bella piazza”: le bare di dieci vittime dell’Italicus in fila sul sagrato di San Petronio, davanti ai profili impettiti degli uomini delle istituzioni. Il ’77 era alle porte, come lo era ‘appello amaro e sarcastico di Claudio: Disoccupate le strade dai sogni, l’album del 1977.
C’è sempre, nella poesia di Lolli, uno commistione – una confusione riconosciuta e rivendicata – tra vita privata e sfera pubblica: “Primo maggio di festa oggi nel Viet-Nam/ e forse in tutto il mondo/ primo maggio di morte oggi a casa mia/ ma forse mi confondo”. Saigon liberata ha il “sapore del sole” ma – ha scritto Claudio Fabretti – anche un retrogusto amaro d’incomprensioni familiari (“forse è mio padre, mi confondo”) tra i ghirigori di sax di “Primo maggio di festa”, mentre attorno alla città c’è mais sull’altopiano, nelle narici c’è odore di brace, e mentre, sulla piazza più amata e cantata che mai, quella alle mie spalle, si affollano lepri pazze, mosche agonizzanti o si affacciano figure leggendarie come “Anna di Francia”, icona di un femminismo temuto e amato, e soprattutto simbolo femminile d’una libertà irriducibile e irrinunciabile.
“Oggi – ha scritto Claudio nel 2006 – gli zingari non sono ben visti, abbiamo un prezzo imposto, per sopravvivere dobbiamo mimetizzarci da brave persone… Ma sul nostro sorriso non si può mentire”. Perciò, caro Claudio, ti ritroveremo sempre dalla stessa parte: seduto dalla parte del torto.

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