Coalizione Civica per Bologna

Federico Martelloni candidato sindaco

Programma elettorale

2016-2021

INDICE

Cambiare la scuola per cambiare la città

  • Recuperare autonomia decisionale e finanziaria
  • Il Comune come propulsore di esperienze didattiche innovative
  • Per una gestione sociale e integrata delle istituzioni educative
  • Nidi e scuole dell’infanzia per chiunque ne farà richiesta
  • Rimuovere gli ostacoli al diritto allo studio
  • Scuola di integrazione, ricerca e passioni
  • Qualità dei pasti, controlli adeguati, educazione alimentare

Welfare, sicurezza e urgenza abitativa

  • Welfare universale, diffuso e garantito
  • Basta con l’emergenza abitativa!
  • Ridurre il costo degli affitti
  • L’housing sociale
  • Amministrazione Comunale e nuova Asp Unica Città di Bologna
  • Lotta alle diseguaglianze nella salute
  • Il Servizio Sanitario Pubblico come bene comune
  • Bologna si_cura

Politiche delle differenze

  • Il Governo della città
  • Conciliazione vita-lavoro
  • Gestione diretta dei servizi educativi e scolastici: stop all’esternalizzazione dei servizi
  • Educare ai diritti e alle differenze, contrastare gli stereotipi di genere
  • Welfare e lavoro: misure di supporto ai nuclei monofamiliari, alle categorie vulnerabili e alle nuove povertà femminili
  • Garantire l’accesso ai diritti sessuali e riproduttivi
  • Donne e rappresentanza

Quartieri e Città metropolitana

  • Il governo della dimensione metropolitana
  • Una città fatta di quartieri
  • Una città plurale e policentrica
  • Contrade solidali e nuove attività produttive
  • Nuove biblioteche per ogni quartiere
  • Trasporti e mobilità della città metropolitana
  • Una città trasparente: Open data di tutte le amministrazioni pubbliche

Vivibilità e salute, riduzione delle emissioni, risparmio delle risorse ed economia ciclica

  • Tutti gli investimenti nella mobilità vanno indirizzati verso il trasporto collettivo e non inquinante
  • Aumentare le aree pedonalizzate
  • Ridurre e riciclare i rifiuti per creare un’economia circolare
  • Acqua pubblica, gestione collinare, manutenzione e dissesto idrogeologico
  • Agricoltura, alimentazione, realizzazione del grande bosco di pianura
  • Salute in tutte le politiche: introduzione di nuovi indicatori

Territorio, urbanistica e mobilità

  • La “vocazione” di Bologna
  • L’attuazione della città incompiuta
  • Nuove centralità periferiche
  • Le opportunità e la città pubblica
  • Rigenerazione urbana, politiche abitative, innovazione tipologica
  • Mobilità sostenibile e SFM
  • Pianificazione del traffico e pedonalizzazione

Lavoro e giustizia sociale: fare di Bologna la città meno diseguale d’Europa

  • Oltre il lavoro. Per un’amministrazione anti-austerity
  • Rispetto dei diritti dei lavoratori comunali, compresi quelli in appalto: un codice di responsabilità sociale per il Comune
  • Da capitale dei voucher a capitale del lavoro di qualità: le ricette per una città #voucherfree
  • Reddito minimo cittadino
  • Banca del tempo
  • Città incubatore

La cultura, un motore ecologico

  • Un gioco di squadra
  • La riorganizzazione del comparto pubblico
  • Il sostegno agli operatori privati
  • Bologna torna laboratorio di produzione
  • Le Biblioteche, avamposti di conoscenza
  • Educarsi alla cultura, dalla Scuola all’Università

Cambiare la scuola per cambiare la città

 

  • Recuperare autonomia decisionale e finanziaria

Bologna deve farsi promotrice di un’alleanza fra le amministrazioni locali per mettere in discussione il Patto di stabilità interno e l’insieme delle norme che, combinate tra loro, strangolano la loro autonomia decisionale e finanziaria, rendendole di fatto mere esecutrici di politiche decise altrove. Oggi ai comuni viene impedito di fatto di rappresentare e tradurre in scelte di governo le esigenze delle comunità locali che rappresentano.

Si tratta di una battaglia politica le cui ricadute sono assai concrete anche per la scuola, ed è la premessa per evitare che progetti educativi e qualità professionali affoghino fra appetiti di mercato e deleghe gestionali a soggetti del tutto inadeguati.

 

  • Il Comune come propulsore di esperienze didattiche innovative

Il Comune deve recuperare il proprio ruolo politico nella definizione delle strategie educative, un ruolo sbiadito o addirittura smarrito nel tempo. Deve tornare ad essere creatore e propulsore di esperienze didattiche e pedagogiche innovative, con un forte contenuto di sperimentazione e ricerca.

Per fare questo bisogna investire nella formazione di tutto il personale educativo, un capitolo oggi completamente e colpevolmente dismesso. Occorre valorizzare la professionalità di pedagogisti/e, educatori, insegnanti e collaboratori/trici scolastici, oggi svilita da una gestione manageriale e gerarchica che ignora le competenze e comprime l’autonomia.

Per fare questo è fondamentale anche ricomporre la coesione di tutto il personale, superando l’ingiustificata compresenza di due differenti contratti – e quindi di due distinti inquadramenti giuridici e retributivi – introdotta dall’amministrazione senza alcun rispetto per i propri lavoratori.

 

  • Per una gestione sociale e integrata delle istituzioni educative

Le istituzioni educative del comune (asili nido e scuole dell’infanzia) sono patrimonio dell’intera collettività e potranno crescere e trasformarsi se sapranno essere in sintonia con i mutamenti sociali.

Questo evoluzione potrà essere realizzata solo immaginando nuovi modelli organizzativi e gestionali che siano in grado di superare le gravi deficienze e inefficienze dell’Istituzione Educazione e Scuola (IES).

La frammentazione tra Area educazione del Comune, Istituzione e Quartieri deve essere superata recuperando una visione unitaria e integrata dei servizi che deve comprendere anche il coordinamento con le scuole statali. Gli organi di governo dei servizi educativi devono essere sottratti a una visione manageriale e restituiti alla competenza e all’esperienza professionale maturata nel campo pedagogico ed educativo. Inoltre, i servizi devono essere costruiti e gestiti in modo da attivare processi reali di partecipazione e di autogestione che vedano protagonisti tutti gli attori coinvolti, compresi i genitori.

È anche necessario riformare la gestione dei servizi integrativi, particolarmente delicati perché chiamati a supportare bisogni specifici, primo fra tutti quello delle bambine e bambini, delle ragazze e dei ragazzi con disabilità. A loro deve essere garantita anche la necessaria continuità educativa, un elemento che passa necessariamente attraverso la garanzia di condizioni di lavoro dignitose per gli educatori e le educatrici che si occupano delle attività di sostegno, alfabetizzazione e doposcuola.

Devono essere applicati contratti nazionali di categoria conformi al ruolo professionale e devono essere stipulati accordi che conducano progressivamente all’equiparazione economica rispetto ai dipendenti comunali con qualifiche equivalenti.

  • Nidi e scuole dell’infanzia per chiunque ne farà richiesta

La scuola, come stabilisce la Costituzione, è laica, aperta, inclusiva, gratuita. Quindi, innanzitutto, è indispensabile rispettare l’indicazione popolare uscita dal referendum consultivo del 2013 sui finanziamenti pubblici alle scuole dell’infanzia paritarie private. Si tratta di un milione di euro da reindirizzare prioritariamente verso la piena soddisfazione delle richieste di accesso alla scuola dell’infanzia, e – ancora – verso la sperimentazione e l’innovazione pedagogica, in progetti di integrazione, nella formazione degli insegnanti, nell’adeguamento della strumentazione didattica, nell’edilizia scolastica, nell’educazione alle differenze.

È indispensabile riaffermare e salvaguardare il carattere pubblico della scuola dell’infanzia comunale, che la legge sulla parità scolastica ha invece indebitamente equiparato alla scuola privata.

Nel sistema educativo pubblico devono essere inseriti anche gli asili nido, secondo le indicazioni della pedagogia più avanzata. Deve inoltre essere garantito il diritto di accesso agli asili nido comunali per chiunque ne farà richiesta.

  • Rimuovere gli ostacoli al diritto allo studio

Anche se la competenza per il diritto allo studio è in capo alle Regioni, il Comune può mettere in campo azioni incisive per contribuire a rimuovere gli ostacoli che limitano il pieno esercizio di questo diritto fondamentale.

Occorre generalizzare l’apertura degli edifici scolastici in orario extrascolastico, per creare luoghi di integrazione tra la scuola e la città attraverso progetti condivisi con le istituzioni scolastiche, spazi fruibili da studenti e studentesse pendolari dopo la fine delle lezioni, spazi di scambio tra le famiglie italiane e le famiglie migranti.

Occorre estendere la gratuità dei trasporti a tutti gli studenti e le studentesse della scuola dell’obbligo e stabilire tariffe proporzionate al reddito per quelli post-obbligo.

Occorre predisporre una rete di servizi e sportelli territoriali per l’orientamento scolastico e formativo, l’informazione su borse di studio e scambi culturali, in collaborazione con gli istituti scolastici.

Occorre infine realizzare interventi specifici per il diritto allo studio degli studenti e delle studentesse con disabilità, in particolare per quanto riguarda il loro diritto alla mobilità.

 

  • Scuola di integrazione, ricerca e passioni

Dal punto di vista della proposta educativa, nelle scuole a gestione diretta e di collaborazione con le scuole statali nell’intero percorso 0-18 – tenendo conto delle risorse educative e culturali presenti nel territorio e delle esperienze maturate nei laboratori didattici museali – gli assi su cui costruire nuovi progetti saranno:

– l’integrazione, la valorizzazione e l’incrocio delle differenze culturali;

– l’educazione civica, ecologica e democratica;

– l’educazione sentimentale, sviluppando e potenziando le attività che affrontano le nuove dinamiche relazionali e i nuovi linguaggi dell’infanzia e dell’adolescenza;

– la conoscenza del patrimonio storico, artistico e culturale.

La valorizzazione delle esperienze didattiche di insegnanti ed educatori, il riconoscimento delle diverse professionalità e del patrimonio scolastico come luogo e laboratorio privilegiato di esercizio di cittadinanza e di convivenza, potrebbero concretamente liberare energie opposte ai processi di competizione e disgregazione sociale in atto. La formazione del personale dovrebbe ruotare attorno a questi temi, a cui aggiungere momenti formativi da estendere in parallelo ai genitori, come occasione per tutti gli adulti di riavvicinarsi alla scuola anche al di fuori dei momenti istituzionali o delle routine quotidiane.

 

  • Qualità dei pasti, controlli adeguati, educazione alimentare

Negli ultimi anni i genitori, attraverso un appassionato dibattito e la costruzione di un livello alto di organizzazione e di rappresentanza, hanno conquistato piena cittadinanza in materia di refezione scolastica. Ma la qualità del servizio può e deve essere ulteriormente migliorata. Occorre:

– rafforzare i sistemi di controllo della qualità dei pasti e dei tempi di consegna;

– dare piena attuazione al capitolato, intervenendo sulle inadempienze attraverso sanzioni il cui introito deve essere reinvestito per il miglioramento del servizio;

– garantire una completa trasparenza sulla provenienza delle materie prime utilizzate e una completa riconversione verso cibi biologici, locali, stagionali;

– incrementare e qualificare i percorsi di educazione alimentare per operatori, studenti e genitori.

Welfare, sicurezza ed emergenza abitativa

 

  • Welfare universale, diffuso e garantito

Negli ultimi anni si è consolidata nell’opinione pubblica l’idea che le politiche di welfare siano parassitarie, un buco nero che sottrae continuamente risorse allo sviluppo dei territori. Nell’ultimo decennio, anche a Bologna, si è imposta quella logica individualista e atomizzante che ha portato a una profonda rottura del rapporto fiduciario tra istituzioni e le cittadine e i cittadini, convertendo intere famiglie al welfare fai da te, che crea soltanto disuguaglianze, paura e preoccupazione per il futuro. Nel momento in cui il risparmio privato è ai minimi storici, la privatizzazione del rischio non fa che accentuare il senso di solitudine e di angoscia delle persone.

Occorre ridisegnare il welfare dunque, nelle sue forme pratiche di gestione delle risorse economiche e umane e nella percezione delle cittadine e dei cittadini che accedono a servizi sempre più frammentati, schermati il più delle volte da una burocrazia insostenibile. Il welfare riguarda la qualità della nostra vita. Tutti, all’occorrenza, abbiamo bisogno di ritirare la nostra piccola o grande quota di spesa sociale, tutti siamo o lo diventeremo, utenti dei servizi pubblici. Il nostro benessere non può prescindere da quello del nostro vicino di casa.

Vogliamo quindi favorire la crescita di un nuovo welfare che, rilanciando la centralità del pubblico a tutela di un’equa ripartizione di costi e prestazioni, favorisca e accompagni tutte le forme di cittadinanza attiva prodotte dal basso, riconoscendone il valore sociale, culturale ed economico.

 

  • Amministrazione Comunale e nuova Asp Unica Città di Bologna

I Servizi Sociali Territoriali devono rimanere in capo all’Amministrazione Comunale e non possono essere esternalizzati all’ASP. Il passaggio di molti servizi sociali e socio-sanitari dalla gestione Comunale a quella dell’Azienda Servizi alla Persona, Asp Unica Città di Bologna (il contenitore che eroga i servizi per noi non è neutro), comporterebbe infatti una serie di criticità, quali:

– minore garanzia della qualità dei servizi erogati alle cittadine e ai cittadini da parte di una nuova Azienda nata per far risparmiare;

– frammentazione dei servizi che verranno erogati con un ulteriore passaggio Comune-Asp-Cooperative Sociali o altri Soggetti che gestiranno materialmente i servizi attraverso gare d’appalto (gare al massimo ribasso, che premiano di più il minor costo dei servizi rispetto alla loro qualità);

– possibile spreco di risorse nel mettere in piedi una nuova macchina amministrativa, altri dirigenti, altri strumenti burocratici;

– mancate garanzie per i lavoratori che spesso in questi passaggi rischiano di perdere in termini economici, di diritti e di motivazione al lavoro di cura.

I Servizi che ci proponiamo invece di realizzare prevedono:

– l’integrazione reale tra i servizi sociali e sanitari per permettere la cura della persona nella sua globalità;

– la condivisione degli obiettivi tra gli ambiti tecnico, amministrativo e politico;

– il superamento della logica degli appalti al massimo ribasso e lo “spezzettamento” degli orari di lavoro degli operatori delle Cooperative Sociali;

– la garanzia della continuità e professionalità attraverso la co-progettazione dei servizi con il privato sociale per una programmazione almeno triennale dei servizi.

Si intende inoltre, proprio per assicurare una qualità costante ai servizi erogati, definire anche mediante protocolli che indichino prassi operative durature una collaborazione regolare con l’Università di Bologna per procedere alla valutazione imparziale e scientifica dei servizi pubblici in termini di risultati e di processi, di qualità e di equità. Una collaborazione che si dovrà poi ampliare alla formazione permanente di chi lavora in servizi rivolti alle persone.

 

  • Lotta alle diseguaglianze nella salute

Il nostro attuale modello di sviluppo genera società che hanno al loro interno una grande diseguaglianza. I fattori sociali che si sono dimostrati più importanti nel mettere a rischio la salute, quando sono carenti, sono innanzitutto il livello di istruzione e il reddito. Per questo motivo l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica come obiettivo per tutti i governi, nazionali e locali, di perseguire una maggiore equità nella salute attraverso l’azione sulle sue determinanti sociali: miglioramento della scolarità, azioni per un ambiente più salubre, per una protezione sociale lungo tutto l’arco della vita, per la sicurezza del posto di lavoro, per salari adeguati e misure come il reddito di cittadinanza. L’impegno per la scuola pubblica, il contrasto attivo all’abbandono scolastico o il reddito minimo sono quindi misure che hanno un impatto preventivo e positivo, costituendo fattori di protezione anche dal punto di vista della salute.

Il nostro territorio non è infatti esente da diseguaglianze nello stato di salute che possono essere ricondotte all’azione di fattori economici, sociali, ambientali, lavorativi, comunque legati alle diverse opportunità di vita e di lavoro. Il Rapporto Osserva Salute 2015 registra, per la prima volta dal 2005, valori in diminuzione della speranza di vita alla nascita anche in Emilia Romagna. Anche i profili di salute stilati negli ultimi anni per la popolazione dell’area metropolitana di Bologna mettono in evidenza sensibili differenze tra i diversi distretti del territorio per alcuni “indicatori di civiltà”, come il numero dei bimbi nati di basso peso, dei bimbi nati pre-termine, la stessa speranza di vita alla nascita.

Oltre ad agire sulle determinanti sociali occorre prendere immediati provvedimenti per rimuovere gli ostacoli che le donne più fragili e svantaggiate, e i loro bambini, incontrano a Bologna e nella Città Metropolitana per accedere ai servizi pubblici sanitari e sociali per la maternità: occorre disegnare percorsi di assistenza alla gravidanza specificamente orientati alle donne povere e migranti che non frequentano i servizi, garantendo il parto gratuito e assistito anche per le donne migranti “irregolari”, contraccezione gratuita dopo l’interruzione volontaria di gravidanza e per le adolescenti non maggiorenni, attraverso i consultori famigliari.

 

  • Il Servizio Sanitario Pubblico come bene comune

Anche se i servizi sanitari, di per sé, non sono i fattori determinanti più importanti per la salute di una comunità, tuttavia l’accesso a servizi di buona qualità si è dimostrato un importante fattore di protezione delle persone e delle comunità, capace di contrastare le diseguaglianze legate al benessere economico della famiglia d’origine. Avere a disposizione questi servizi, accessibili e fruibili al momento del bisogno o, come nel caso ad esempio di misure di prevenzione come le vaccinazioni in età infantile, al momento “giusto” della propria vita, aiuta a crescere bene come cittadini consapevoli, consente di superare gli handicap di partenza e di condurre una vita in equilibrio con il proprio ambiente.

Da tempo a livello nazionale, ma ora anche nel nostro territorio, stiamo assistendo a un fenomeno di “sostituzione”: limitazione delle risorse destinate ai servizi pubblici e sostegno, con risorse pubbliche, di strutture alternative private, che il cittadino utilizza pagandole di persona, ma che vengono favorite o direttamente finanziate dal pubblico (consentendo ad esempio a specialisti dipendenti pubblici di svolgere la propria libera professione nel privato).

Il caso del pronto soccorso “a pagamento” inaugurato da un imprenditore della sanità privata bolognese con il taglio del nastro da parte degli amministratori pubblici è emblematico: un caso nel quale i servizi sanitari, invece che giocare il ruolo di contrasto alle diseguaglianze sociali ed economiche, le cristallizzano, favorendo una cura tempestiva, ad accesso diretto, a chi può permettersi di pagare “solo 100 euro”.

Dati recenti dell’OCSE dicono che il 7,1% degli italiani (oltre 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, la lista d’attesa troppo lunga oppure l’ospedale troppo distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia alla cura sale al 14,6% nel caso in cui gli interpellati appartengano al 20% più povero della popolazione.

Noi affermiamo l’assoluta priorità del finanziamento e dell’innovazione del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico e universalistico, motore di mobilità sociale e di protezione del benessere delle persone e delle nostre comunità.

Vogliamo “Case della salute” di quartiere, per avere cure primarie di buona qualità e un’assistenza integrata tra sanità e servizi sociali, più vicina ai cittadini, più personalizzata sulle caratteristiche delle persone, delle loro famiglie e comunità.

Vogliamo promuovere un Laboratorio di Innovazione, in collaborazione con Aziende Sanitarie e Università di Bologna, per la messa in opera di Corsi di Laurea Magistrale per Infermieri con competenze avanzate nel campo delle Cure Primarie, per sostenere la sperimentazione dell’Infermiere di Famiglia nelle Case della Salute. Una figura di Infermiere”curante” che esiste e ha successo in molti paesi con un buon sistema sanitario pubblico come il Canada e la Catalogna, una figura adatta ad affrontare la sfida dei malati cronici che devono essere seguiti per molti anni, non necessariamente sempre dal medico.

Vogliamo investire sulla formazione di nuovi professionisti della salute anche sostenendo l’Università di Bologna nella sperimentazione di curricula di formazione in parte integrati tra le diverse lauree sanitarie, a cominciare dalla Laurea in Medicina e Chirurgia e da quella in Scienze infermieristiche, e tra Lauree Sanitarie, Laurea delle Scienze Sociali e Laurea per Educatori. Vogliamo operatori capaci di lavorare insieme, competenti su saperi integrati, al confine tra le diverse discipline e professioni, capaci di destreggiarsi nella complessità.

In opposizione all’entrata di un mercato privato nei servizi di emergenza-urgenza pubblici proponiamo ambulatori a libero accesso per i “Codici Bianchi”, gestiti da Medici di Famiglia e di Guardia Medica, con il supporto di personale infermieristico e medico-specialistico, pubblici, gratuiti, integrati nelle Case della Salute.

 

  • Bologna si_cura

Rispetto al tema sicurezza intendiamo affrontare i numerosi problemi con lo stesso atteggiamento di innovazione e pianificazione che contraddistingue la nostra proposta politica. Basta con l’emergenza anche per quanto riguarda la sicurezza! Non serve gridare al pericolo o al degrado, ma proporre azioni concrete e positive. Si tratta soprattutto di tenere conto del fatto che dietro ai problemi relativi alla sicurezza nella nostra città e nei nostri quartieri si nascondono questioni precise: non solo disagio sociale ma spazi abbandonati e male curati, totale incuria e dimenticanza verso alcune parti della città.

Occorre in primo luogo valorizzare le esperienze di sicurezza sociale autorganizzate già presenti in città e investire nella partecipazione delle cittadine e dei cittadini alla cura dei quartieri in termini di spazi e di relazioni tra chi li abita. Prevenzione dovrà essere la parola d’ordine di ogni azione di governo della città, l’emergenza al contrario non può che portare all’uso della coercizione e della repressione. L’ascolto delle cittadine e dei cittadini sarà un pilastro delle nuove strategie di sicurezza, anche tramite l’istituzione di tavoli coordinati dai quartieri con rappresentanti della cittadinanza, operatori dei servizi, privato sociale, imprese, Forze dell’Ordine e Polizia Municipale, per leggere insieme i bisogni e mettere insieme le risorse.

Cosa vuole dire questo in concreto? Non si tratta solo di “sorvegliare” ma di intervenire prima, in modo attivo e propositivo, per prevenire e prevedere i problemi. In altre esperienze, ben più a rischio delle nostre, sono state organizzate forme di partecipazione e di coinvolgimento con figure come i mediatori di zona (contribuendo a formare queste persone) che assieme a una riprogettazione della funzione dei “vigili di prossimità” o di quartiere – una istituzione spesso rimasta sulla carta o sviluppata in modo troppo arretrato e passivo – sappiano raccogliere, certo, notizie e informazioni su situazione di allarme, ma lavorino in strada per intervenire subito sulle situazioni. La questione deve essere posta in questi termini: non solo “più controllo” ma “quale problema sta emergendo”? Cosa possiamo fare qui e ora per intervenire? Aiuto, gestione della sicurezza, confronto con le cittadine e i cittadini. Intervento di vicinanza, di mediazione, di gestione delle emergenze e di pianificazione per impedire che gli spazi urbani si trasformino in luoghi insicuri.

Occorre garantire una rete capillare e funzionale di servizi di prevenzione in ogni quartiere attraverso operatori competenti (interventi educativi di strada, centri culturali, spazi per i giovani e interventi di supporto al successo scolastico e all’inserimento lavorativo per chi ne ha bisogno), riqualificando e rendendo più piacevoli gli spazi pubblici, senza allestire piazze-salotto ma pensando alla semplicità, alla funzionalità e alla vivibilità. Le esperienze più significative in questo ambito ci dicono che allestire piccole piazze, anche con progetti poco costosi, rapidi e leggeri nella loro attuazione, che non richiedano lunghe fasi di progettazione (arredi provvisori), co-gestiti assieme ai negozianti e ai lavoratori della zona, contribuiscono a rendere gli angoli delle città, anche in periferia, piacevoli, vivibili, sicuri, proprio perché “presi in carico” dalla cittadinanza. Sedie, sdraie, piante, aiuole, pedane colorate dove fermarsi, scambiare due chiacchiere e incontrarsi. Si tratta di trasformare parti di città che rischiano di ingrigirsi e morire, per cambiarne gli utilizzi, i ritmi, la percezione (meno degrado, più tranquillità e piacere). L’esperienza insegna che più gli spazi sono piacevoli e vivibili, più ci sono persone in giro, anche la sera, e più ci sono persone in giro, più si esercita una funzione di controllo collettivo e partecipato.

  • Basta con l’emergenza abitativa!

Il tema dei beni condivisi è centrale per una riorganizzazione della città che sia in sintonia con la complessità del nostro tempo. La riqualificazione degli spazi abbandonati e la loro trasformazione in contesti comunitari permanenti sarà tra le nostre priorità. La città ne è piena e le istituzioni finora sembrano essersene accorte solamente quando le cittadine e i cittadini ne prendono autonomamente possesso, le risanano e creano all’interno pratiche di cittadinanza attiva. Queste esperienze hanno generato in alcuni casi delle vere e proprie sperimentazione di welfare dal basso, spesso con il convinto consenso della cittadinanza che ne avverte il potenziale di sicurezza sociale che quelle esperienze portano con sé.

Occorre quindi allargare l’inquadratura oltre le soluzioni tampone e le politiche di emergenza, basate su sgomberi e sfratti (negli ultimi due anni almeno dieci grandi stabili e una decina di appartamenti di edilizia pubblica sono stati occupati a scopo abitativo), senza per questo dimenticare il disagio estremo dei senza dimora “tradizionali”, quelli che abitano rifugi di fortuna, binari morti alla stazione, portici del centro storico, dormitori pubblici. Infine, ci sono gli sfratti per morosità incolpevole che nel 2015, così come nell’anno precedente, sono stati circa 1400. Il problema abitativo ha quindi una dimensione che va oltre l’emergenza, dato anche il numero crescente di persone coinvolte.

Sul tema della casa, dei diritti dei minori e della dignità delle persone più vulnerabili, noi diciamo “basta con l’emergenza”. Bisogna andare rapidamente al definitivo superamento della logica che ha distinto l’attuale giunta per cui l’amministrazione si attiva, trova soldi e soluzioni, solo di fronte a uno sgombero. Questi interventi, oltre ad avere costi decisamente elevati, non fanno altro che riprodurre sofferenza. Occorre un radicale processo di modifica dell’organizzazione dei servizi che restituisca centralità al lavoro di progettazione, prevenzione, promozione del benessere di utenti e operatori. Servizi che superino non solo la logica dell’emergenza, ma anche quella assistenziale, modellandosi su bisogni e risorse della persone e del territorio. Servizi che vadano oltre la logica delle categorie e dei finanziamenti a settore (disabili, immigrati, minori, povertà), per un approccio globale alla persona. Servizi, infine, che siano capaci di provocare cambiamenti culturali negli atteggiamenti delle persone, delle famiglie e delle associazioni che da passivi soggetti richiedenti soluzioni da parte di altri diventino co-progettatori e co-produttori del benessere proprio e della collettività sociale.

 

  • Autonomia e responsabilità

Per risolvere il problema dell’emergenza abitativa occorre pensare a modelli che producano autonomia. Le strutture di accoglienza “di massa”, come i dormitori, generano cronicità del disagio e non abbattono i costi. Occorre invece pensare a soluzioni di housing diffuso, appartamenti per piccoli gruppi o famiglie dove si sviluppi “empowerment” e senso di comunità. Un progetto in grado di intercettare questo bisogno di alloggio comprenderà:

– una maggiore articolazione dei percorsi di accesso al bene casa;

– un incremento del comparto dell’affitto di qualità e a costi inferiori rispetto a quelli proposti oggi dal mercato.

Tali esigenze non possono essere affrontate solamente con interventi immobiliari in libero mercato o con le sole politiche di edilizia popolare. Tra queste due polarità si apre un vuoto che va affrontato con categorie e strategie nuove. Le politiche della casa devono lasciare il posto a una nuova politica dell’abitare che contempli una sinergia tra pubblico e privato (sociale) per la progettazione, la gestione e la sostenibilità di nuovi interventi abitativi sociali.

 

  • Ridurre il costo degli affitti

Occorre incidere sul mercato degli affitti attraverso accordi con i proprietari, tramite il potenziamento dell’agenzia per l’affitto, che deve svolgere realmente il ruolo di mediatore tra soggetti deboli e proprietari. L’agenzia deve essere anche dotata di fondi economici garantire i proprietari da eventuali morosità incolpevoli.

In quanto offerta accessibile e temporanea, l’affitto è una soluzione che tende a intercettare prioritariamente la popolazione giovane e dinamica, voce emergente quanto vulnerabile e trascurata della “nuova domanda abitativa”. Single e giovani coppie, famiglie di nuova formazione, studenti e giovani lavoratori si trovano infatti a fare i conti con una fase di avvio spesso delicata, segnata da incertezze e instabilità ma anche da prospettive che necessitano di supporto e accompagnamento. Affitti a canoni accessibili potrebbero quindi offrire l’opportunità di un abitare “transizionale”, che non immobilizza le progettualità di futuro nell’acquisto di una casa ma supporta e libera risorse e desideri.

La scelta strategica della locazione deriva inoltre dal fatto che la modalità dell’affitto è in grado di rispondere a un numero di domande di casa assai superiore, essendo consentito il movimento delle persone che vi si rivolgono, nel tempo, verso nuove soluzioni, in funzione di mutate esigenze e secondo differenti percorsi di vita.

Infine, il carattere di temporaneità/transitorietà dell’offerta, assieme all’articolazione tipologica di quest’ultima (con abitazioni di taglio e di tipo diverso: minialloggi, alloggi collettivi e protetti), è in grado di qualificare l’housing sociale come servizio di interesse economico generale. Dal punto di vista sociale, il concetto di “casa come servizio” (più che come prodotto) implica il rispetto di due caratteri fondamentali:

– l’universalità dell’offerta (potenzialmente rivolta “a tutti”, alla collettività);

– la temporalità/transitorietà della stessa, ossia condizioni di accesso e permanenza definite in specifici regolamenti, ma anche l’accompagnamento nella ricerca di nuove sistemazioni.

 

  • L’housing sociale

Occorre stimolare modalità di abitare diverse, che siano da stimolo a un nuovo rapporto tra l’uso e la progettazione degli spazi comuni e gli spazi privati. Il Comune deve farsi promotore e garante di una serie di progetti di housing sociale. In questi progetti la qualità è associata, in primo luogo, alla capacità di prevedere una pluralità di spazi in grado di mediare il passaggio da una sfera maggiormente intima e privata a una più comunitaria e di condivisione. In particolare, riconoscendo la crescente complessità del vivere contemporaneo, occorre propone modelli abitativi “estroversi”, capaci di preservare la dimensione intima senza renderla esclusiva e, quindi, di affiancarvi (favorendoli) momenti di incontro e socializzazione, che si ripropongono quali dimensioni centrali dell’abitare. In tal senso, lo stile progettuale deve mirare per un verso al contenimento dello spazio privato (con alloggi di taglio piccolo e medio-piccolo ma, al contempo, altamente flessibili e riconfigurabili nel tempo) e, per l’altro verso, a sviluppare spazi comuni interpretati come occasione di incontro e scambio.

Obiettivo irrinunciabile di un tale progetto in locazione è quello di promuovere, attraverso un servizio di alta qualità, una “nuova cultura dell’affitto”, in cui tali luoghi possano essere curati e “prodotti” dalla stessa comunità insediata.

Si tratta quindi di promuovere la realizzazione di ambienti accoglienti e ben forniti di supporto alla vita quotidiana (come depositi, lavanderia comune, piccoli laboratori) o anche orientati a ospitare attività per l’incontro e il tempo libero (spazi multifunzione e animativi, sale studio, etc.). Questi non devono necessariamente essere riservati in modo esclusivo agli inquilini, ma possono aprirsi anche all’esterno, partecipando alla costruzione di un contesto di qualità e innervando la realtà territoriale di vivacità sociale (garantendone così anche una maggiore sicurezza).

Il progetto sulla casa, inteso in questa forma, lavora al rafforzamento di un’interpretazione nella quale l’abitare non si riduce alla sola dimensione edilizia e costruttiva, ma ricerca relazioni con altre funzioni (commerciali, culturali, assistenziali, etc.), superando la mono-funzionalità dei comparti e rispondendo così ad altri bisogni presenti nel contesto locale.

La finalità è quella di realizzare edifici di elevata qualità dal punto di vista non solo compositivo-architettonico (aspetto che include spazi accessibili e riconfigurabili), ma anche funzionale e prestazionale, puntando sulla qualità dei componenti, sull’elevata dotazione tecnologica e sul ricorso a sistemi di produzione energetica integrati che sfruttano fonti rinnovabili. Queste scelte, se da un lato possono apparire maggiormente onerose in fase di realizzazione delle strutture, consentono tuttavia di contenere significativamente i costi nelle successive fasi legate al ciclo di vita degli edifici e rappresentano, inoltre, un importante fattore in grado di qualificare e valorizzare l’intervento per chi lo promuove, per chi lo assume, per chi lo abita.

Politiche delle differenze

 

Alle richieste di piena cittadinanza sociale, di uguaglianza e di autodeterminazione che le donne e le altre soggettività avanzano, si sono offerte in questi anni soltanto risposte frammentarie. Il disinteresse della precedente amministrazione, rappresentato dal mancato esercizio da parte del Sindaco della delega alle pari opportunità, che pure ha scelto di tenere per sé, ha determinato un peggioramento della condizione delle donne e dei soggetti LGBTQI, aggravato dall’assenza di politiche per conciliare vita e lavoro e dal disinvestimento sui Consultori.

È mancato in particolare un progetto strutturale per affrontare, nella loro complessità, la discriminazione che colpisce le donne e i soggetti LGBTQI in tutti gli ambiti della vita, e quei pregiudizi che stanno alla base, oltre che della discriminazione, anche della violenza maschile sulle donne e omo/transfobica.

  • Il Governo della città

E’ necessario istituire un Assessorato alle differenze (la precedente amministrazione aveva abolito l’Assessorato alle pari opportunità, consegnando le deleghe al Sindaco). A differenza del passato, l’Assessorato dovrà avere un mandato specifico e di lungo termine. Da un lato l’Assessora alle differenze sarà responsabile dell’impulso politico, dall’altro dell’elaborazione e attuazione di un programma pluriennale per la creazione di politiche di rete e di coordinamento con gli altri assessorati.

Sarà cura dell’Assessorato predisporre le necessarie misure organizzative per arrivare a integrare le politiche di genere in tutte le aree di intervento del Comune e redigere, previa consultazione delle associazioni attive in città, il Piano d’azione per l’attuazione della Carta europea per l’uguaglianza e le parità delle donne e degli uomini nella vita locale.

  • Conciliazione vita-lavoro

Conciliare la vita professionale con quella sociale e privata è un diritto che il Comune deve contribuire a realizzare, in primo luogo come datore di lavoro, ma anche, in attuazione della Carta, attraverso una riprogettazione di tutti i servizi in un’ottica di genere, a partire da un percorso di partecipazione femminile.

Occorre una riorganizzazione interna dell’amministrazione comunale e la revisione di politiche, procedure e prassi per favorire la Conciliazione vita lavoro per i dipendenti comunali.

Occorre riorganizzare l’offerta relativa ai centri estivi/estate per ragazze e ragazzi. Da anni infatti il tempo della scuola non coincide più con quello della famiglia e, soprattutto, con quello dei genitori che lavorano: spesso, per via dell’esistente divario salariale, sono più spesso le donne coloro che rinunciano a posti di lavoro o a possibili avanzamenti di carriera perché consapevoli di non riuscire a conciliare il lavoro con le varie incombenze familiari. Attualmente il Comune di Bologna promuove I Centri estivi/Estate ragazzi e il progetto Scuole aperte. Occorre riorganizzare l’offerta con un’attenzione particolare alle esigenze delle famiglie e alla qualità dell’offerta, nonché rafforzare tale offerta per andare incontro a bisogni reali come la copertura del periodo delle vacanze natalizie (15 giorni) e i pomeriggi durante l’anno scolastico. Per fare questo è necessario rivedere il sistema delle competenze e delle relazioni tra i diversi soggetti che operano in Città (Istituzione Educazione e Scuola, settori del Comune, quartieri, sistema culturale pubblico, musei e biblioteche in primis e sistema culturale privato). Occorre progettare dei veri e propri spazi e luoghi civici di raccordo tra scuola e tempo libero extrascolastico, condotti da operatori qualificati, con l’obiettivo di accogliere le bambine e i bambini e gli adolescenti proponendo giochi e divertimento, ma anche sostegno nella ricerca, nello studio e nella partecipazione a diverse attività in collaborazione con altri ambiti: sport, verde, educazione civica.

 

  • Gestione diretta dei servizi educativi e scolastici: stop all’esternalizzazione dei servizi

La politica della Giunta uscente sulle esternalizzazioni a privati dei servizi e delle occasioni, dei luoghi di formazione e contatto con le bambine, i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie (sussidiarietà) ha avuto un impatto negativo sia in termini di garanzia di laicità dei servizi sia in termini di peggioramento delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori.

La Giunta ha scelto di ignorare il punto di vista le donne della città di Bologna, che avevano votato in massa il referendum cittadino per l’abolizione dei finanziamenti pubblici alle scuole private. Noi diciamo che la volontà espressa in quel referendum va rispettata.

Il diritto all’educazione ha una funzione vitale in tutte le tappe dell’esistenza e per questo il Comune deve garantire, attraverso la gestione diretta dei servizi educativi e nelle scuole, che in ogni momento formativo o di prossimità con le bambine, i bambini e gli adolescenti venga assicurato il rispetto e la promozione delle differenze, dei principi di pari opportunità.

 

  • Educare ai diritti e alle differenze, contrastare gli stereotipi di genere

È compito del Comune favorire una cultura dei diritti e prevenire la formazione anche nelle giovani generazioni di pregiudizi su base razziale, sessuale e religiosa. È necessario riattivare un vero e proprio piano di educazione della cittadinanza alle differenze – bambine e bambini, adolescenti, adulti, lavoratrici e lavoratori (in particolare gli addetti agli sportelli – URP, biblioteche, quartieri, servizi vari), anziani –, dando vita a una vera e propria attività di formazione continua con antropologi, educatori, mediatori culturali, attraverso pratiche innovative (incontri, laboratori, giochi di ruolo, scambi di cibo, mercatini, feste di strada) mescolando età dei partecipanti e paesi di provenienza.

È compito specifico del Comune eliminare ogni stereotipo legato alle relazioni e ai ruoli delle donne e degli uomini in ogni forma di educazione, avuto riguardo in particolare alle giovani generazioni. A Bologna esistono percorsi educativi (ad esempio il Progetto Alice o W L’amore) che sono considerati eccellenze a livello nazionale. Occorre mettere queste esperienze a sistema.

 

  • Welfare e lavoro: misure di supporto ai nuclei monofamiliari, alle categorie vulnerabili e alle nuove povertà femminili

A Bologna, dal 1986 a oggi, è triplicato il numero di donne single tra i 30 ed i 44 anni, spesso appartenenti a fasce di reddito medio-basse. Insieme a loro aumenta il numero delle donne anziane e sole. Il sistema di welfare attuale poggia ancora su uno schema tradizionale di famiglia, ma occorre prendersi cura di situazioni in cui, in caso di separazione o di perdita di lavoro, si prefigura una vera e propria povertà di genere. A ciò va aggiunta una pesante disparità salariale a parità di mansioni (anche in Emilia Romagna, che pur vanta uno dei maggiori tassi di occupazione femminile del Paese, si registra un differenziale retributivo tra uomini e donne, dai 304 in su a seconda del livello occupazionale – dati 2011). Occorre colmare il deficit di politiche di welfare e abitative pensate per rimuovere gli ostacoli alla piena autonomia delle donne sole. Occorre sostenere azioni di inclusione sociale a difesa delle donne più vulnerabili (in particolare donne migranti, in costante aumento), promuovere l’associazionismo femminile (incluse le reti di sostegno socio/psicologico), garantire forme flessibili di lavoro per chi è costretto a occuparsi della prole o degli anziani in casa senza il sostegno di un partner, sviluppare e finanziare azioni per implementare la sensibilità sociale sui diritti di libertà individuale. Occorre fornire incentivi alle aziende che assumono donne disoccupate, ad esempio attraverso sgravi fiscali sulle imposte comunali.

In ottemperanza ai nuovi obblighi imposti agli assistenti sociali dalla l. 119/2013, Coalizione Civica, per garantire alle donne e bambini sopravvissuti alla violenza maschile ed al traffico di esseri umani un uguale accesso all’assistenza ed ai servizi sociali, prenderà tutte le misure necessarie per l’adeguata formazione e l’inclusione di un approccio basato sui diritti umani nella pianificazione, finanziamento e fornitura dell’assistenza sociale e dei servizi sociali.

  • Garantire l’accesso ai diritti sessuali e riproduttivi

La legislazione vigente prevede ampi spazi d’intervento all’azione dei Comuni, esistono quindi tutte le condizioni per una piena attuazione della legge 194/1978 nel Comune di Bologna. A fronte dei problemi da più parti riconosciuti, questo tema non è stato nemmeno sollevato dal Sindaco uscente. Occorre adottare tutte le misure di competenza delle istituzioni comunali per garantire l’accesso ai metodi abortivi in tutte le strutture pubbliche, nonché campagne informative per la distribuzione senza restrizioni delle pillole per la contraccezione di emergenza in tutte le farmacie. Occorre valorizzare i consultori, in particolare per quanto riguarda l’educazione alla salute sessuale e riproduttiva, nonché promuovere una collaborazione e interazione reciproca tra Scuola e Consultorio, mediante il sostegno a programmi di educazione all’igiene sessuale e alla salute riproduttiva nelle scuole, effettuati da parte di medici e psicologi professionisti dell’età evolutiva, rivolti agli alunni e ai genitori, in modo da incontrare ragazzi e ragazze possibilmente prima dell’inizio della vita sessuale (potrebbe essere legato alla campagna per la vaccinazione dell’HPV) e i primi anni delle superiori.

 

  • Donne e rappresentanza

Per la prima volta a Bologna è possibile esprimere la doppia preferenza, votando una candidata e un candidato della stessa lista e di sesso differente. Per promuovere questa opzione, abbiamo scelto di adottare come criterio per la composizione della lista un alfabeto di genere, indicando, in ordine alfabetico, prima tutti i nomi delle candidate donne e poi quelli dei candidati uomini. L’alfabeto di genere nella lista non è una quota rosa, ma è la convinzione che l’entrata di un gran numero di donne ai vertici della politica della città possa cambiare lo sguardo sull’esistente delle bambine e dei bambini di oggi e che la presenza di tante donne messe insieme possa produrre inevitabilmente un pensiero differente e irresistibile per tutta la città.

Quartieri e Città metropolitana

 

  • Il governo della dimensione metropolitana

Per la prima volta le cittadine e i cittadini bolognesi sono chiamati ad eleggere un Sindaco che sarà anche il Sindaco metropolitano, secondo un disposto 56/2014 che prevederebbe l’elezione diretta solo nel caso in cui il Comune di Bologna si scindesse in diversi Comuni autonomi, percorso complesso, difficoltoso e dai tempi improponibilmente lunghi e incerti. Di questa norma è necessario rivendicare la modifica, perché il Sindaco metropolitano sia eletto direttamente dalle cittadine e dai cittadini dell’intera area, senza costringere gli abitanti di Bologna ad affrontare una scelta, quella della divisione del capoluogo, ancora non matura nella cognizione diffusa né approfondita sul piano analitico.

Questo non deve implicare un disimpegno nei confronti della dimensione metropolitana e della pianificazione dell’area vasta: anche se l’impalcatura del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) è solida e ben fondata, si tratta ora di procedere all’aggiornamento del Quadro conoscitivo, in stretta integrazione con le diverse pianificazioni che si sono definite alla scala delle Unioni dei Comuni, con particolare attenzione alle zone montane del territorio.

Allo stesso tempo, nei confronti della revisione della legge 20/2000 avviata in sede regionale, occorre contribuire in questa sede proprio con la consapevolezza del fatto che l’elezione diretta del Sindaco metropolitano è una condizione di legittimità non rinviabile per la messa a punto di un vero Piano strutturale metropolitano a caratteri urbanistici, cioè capace di individuare le situazioni suscettibili di trasformazione, sempre e comunque in collaborazione con le Unioni di Comuni.

Parallelamente, è possibile avviare una revisione del PTCP – e contestualmente del PSC del Comune di Bologna – in ordine alla previsione, ormai datata, delle principali infrastrutture di trasporto. Vanno cancellate previsioni superate o non giustificate dalla domanda, come la metrotranvia, lo stesso People Mover – caso, questo, da dirimere anche sul piano amministrativo e sul quale pendono indagini giudiziarie – e il Passante di Mezzo.

Le condizioni ottimali per affrontare quest’ultima decisione – che sinora non si sono verificate – sono quelle di poter procedere all’esame di tutte le alternative possibili, non escludendo ipotesi all’epoca non valutate, come quella del parziale riuso, nella pianura allargata al territorio di Modena, Ferrara e Ravenna, di tratti di viabilità preesistente, e valutando anche , in particolare per ciò che riguarda l’allargamento in sede della Tangenziale di Bologna, la cosiddetta “Opzione Zero”.

 

  • Una città fatta di quartieri

Bologna è stata la prima città in Italia a sperimentare il decentramento amministrativo con l’istituzione dei quartieri fondati sul principio della partecipazione attiva delle cittadine e dei cittadini alle decisioni, a partire dal “libro bianco” di Dossetti che formulò per primo la proposta, attuata dal Sindaco Dozza. In questi ultimi anni, al contrario, ha avuto luogo un processo di riaccentramento burocratico delle competenze, sia in capo ai settori dell’Amministrazione sia in capo agli enti strumentali quali ASP e Istituzione Scuola, che ha progressivamente depotenziato i quartieri.

I quartieri devono invece tornare ad essere centri pulsanti di vita, riconoscibili dalle cittadine e dai cittadini come porta d’ingresso dell’Amministrazione Comunale, sempre aperti all’incontro, alla partecipazione, all’ascolto, alla mediazione. Una porta dalla quale accedere all’informazione e ai servizi, luoghi privilegiati della partecipazione al governo comune del territorio.

Per realizzare un vero cambiamento, si tratta di capovolgere le politiche sulle quali è stata amministrata la città finora. Si deve passare da una visione municipalistica tradizionale a una dimensione metropolitana e partecipata, in cui i quartieri assumono la caratteristica di municipalità con una propria autonomia amministrativa, attraverso la riorganizzazione complessiva e la redistribuzione di competenze, di personale e di risorse. La tappa successiva, in un percorso che non può esaurirsi in un solo mandato, è realizzare la città metropolitana integrando e coordinando municipalità, comuni e unioni comunali in un’unica istituzione elettiva diretta: solo così si può attuare una vera e propria riforma nella direzione di un nuovo decentramento partecipativo, in cui le cittadine e i cittadini si sentano protagonisti della nuova istituzione.

Se si vuole che i quartieri divengano “centrali”, trasformando così Bologna da un centro con tante periferie in un sistema di “centri urbani”, caratterizzato da un “centro storico” con le sue peculiarità ma anche da altri “centri” dotati di proprie caratteristiche e di una propria autonomia amministrativa occorre un nuovo indirizzo politico che avvii il percorso e che metta in atto una nuova programmazione generale, che preveda anche strumenti e processi più specifici, come:

  • un approccio di urbanistica concertata e consensuale, che possa poi essere tradotto anche in “contratti di quartiere”;
  • una progettazione diffusa e partecipata, anche di piccola taglia, tesa alla valorizzazione delle storie, delle risorse e delle bellezze, che pure già esistono nelle periferie o che possono essere create, anche ai fini di un turismo che oggi segue spesso canali differenziati;
  • la valorizzazione e la messa a disposizione più di quanto non avvenga ora dei molti spazi pubblici disponibili: scuole, biblioteche, sedi istituzionali, spazi aperti e chiusi, ecc;
  • la cura nel passare da una caratterizzazione spesso monofunzionale a una chiaramente plurifunzionale;
  • una programmazione degli eventi, di cinema, teatro, sport, diffusa nel territorio;
  • interventi per rendere accessibili a nuove attività produttive gli spazi oggi indisponibili o abbandonati.

 

  • Una città plurale e policentrica

Occorre quindi costruire un’amministrazione policentrica, con un forte indirizzo unitario e uno sviluppo territoriale che abbia la stessa attenzione per le piazze periferiche come per quelle centrali. Nei quartieri (Municipi) devono tornare ad avere centralità presidi forti in termini informativi, di relazione con le persone e le imprese, di accesso ai servizi, della cui qualità l’Amministrazione deve rispondere direttamente. In particolare presidi pedagogici, educativi, di presa in carico e assistenza sociale, di orientamento formativo e lavorativo devono ritrovare casa in ogni quartiere.

La presenza di questi presidi non deve attenere solamente alla collocazione fisica dei punti di accesso, ma all’internità funzionale dei servizi. Anche nell’eventualità, da noi non auspicata, che le funzioni operative siano successivamente sviluppate da ASP, Istituzione o dal terzo settore, la Presa in carico e il monitoraggio, oltre naturalmente all’indirizzo e al controllo, devono rimanere completamente pubblici. Si tratta di spostare nei nuovi quartieri, cresciuti per dimensione ma privi di funzioni reali, competenze, personale e risorse economiche. Oggi si avverte la forte inadeguatezza dei presidi nel territorio, con intere zone periferiche lasciate in abbandono: vigili urbani, assistenti sociali, mediatori culturali devono percorrere le strade della città per mantenere un contatto costante con gli abitanti, le imprese e i loro problemi.

I nuovi strumenti per la progettazione partecipata, come i patti di collaborazione, devono avere realmente il loro fulcro nei quartieri e non riguardare come ora solo argomenti marginali. Nella gestione, in termini di tempo e personale, sono di enorme aiuto le nuove tecnologie (non sfruttate fino in fondo in questo campo) che permettono di dematerializzare molti servizi (spesso puramente burocratici), alleggerendo i carichi di lavoro in questo campo per ridare invece spazio e tempo all’incontro e al dialogo diretto nei progetti di partecipazione e nei servizi alla persona, che naturalmente devono sfruttare al massimo le nuove piattaforme virtuali di comunicazione e co-progettazione ma che necessitano anche di scambi diretti, strette di mano, sguardi e ascolto.

 

  • Contrade solidali e nuove attività produttive

Le periferie, vero fiore all’occhiello della Bologna della febbre del fare, sono ormai state ridotte a semplici quartieri dormitorio, molti esercizi commerciali sono chiusi per cessata attività e per affitti troppo alti. Occorre intervenire drasticamente rendendo accessibili a nuove attività produttive gli spazi oggi indisponibili e abbandonati. Gli spazi comuni sono stati lasciati all’abbandono, sono totalmente assenti spazi di condivisione e centri culturali. In questo contesto, le profonde trasformazioni della società bolognese hanno finito per alimentare una percezione di abbandono e di insicurezza che ha corroso i legami sociali che avevano caratterizzato la vita nelle periferie.

In molte città europee si è intervenuto nelle periferie aprendo biblioteche, luoghi di socialità e di cultura, promuovendo eventi specifici per le donne con il tentativo di incoraggiarle a vivere il quartiere senza la presenza degli uomini. Il risultato è stata una rivitalizzazione della vita di quartiere, con eventi culturali serali, che hanno non solo migliorato la vita di coloro che abita nelle periferie, ma ha anche dimezzato la criminalità. Il migliore antidoto alla criminalità sono infatti gli spazi dove c’è vita sociale, cultura e condivisione, dove le relazioni si rafforzano dando origine a vere e proprie “contrade solidali”.

 

  • Nuove biblioteche per ogni quartiere

Le biblioteche di quartiere sono state realizzate molto tempo fa e devono essere completamente ripensate per rispondere ai bisogni della città. In alcuni casi è necessario individuare nuove localizzazioni che tengano conto delle trasformazioni sociali e urbanistiche della città e possano quindi interagire con gli spostamenti quotidiani delle cittadine e dei cittadini e con le loro relazioni sociali. Bisogna aggiornare le biblioteche esistenti e costruirne di nuove, più grandi e accoglienti, progettate per un uso flessibile degli spazi che le renda disponibili a ospitare una molteplicità di funzioni, mutevoli nel corso della giornata o nell’arco della settimana.

La ridefinizione delle funzioni è il cuore delle nuove biblioteche, che devono diventare un punto di accesso unico per i bisogni delle cittadine e dei cittadini in campo culturale, formativo, informativo e sociale. Leggere un libro o un giornale, scegliere un film, preparare un esame, chiedere supporto per preparare un curriculum, frequentare un corso di lingue, chiedere informazioni sui musei da visitare in città, organizzare un doposcuola, orientarsi nella ricerca di un lavoro, di uno stage, di una borsa di studio all’estero, organizzare una festa, cercare assistenza per un familiare non autosufficiente… Tutto questo e molto altro deve essere possibile nelle nuove biblioteche di quartiere, perché saranno luoghi di socialità e di apprendimento collettivo.

Perché tutto questo sia possibile, bisogna rivoluzionare gli orari: tutte le biblioteche di quartiere devono essere aperte molto più a lungo, e soprattutto il sabato pomeriggio e la domenica. Solo in questo modo diventeranno luoghi accessibili e fruibili da tutti.

Il personale deve essere formato in modo che possa acquisire competenze trasversali e costruire una nuova professionalità, interamente orientata all’utenza. Questa trasformazione deve essere supportata dalla costruzione di un sistema metropolitano dedicato alla gestione centralizzata di funzioni come le procedure di acquisto dei libri e dei documenti, la loro catalogazione e il prestito interbibliotecario.

La progettazione dei nuovi spazi deve essere realizzata insieme alle cittadine e ai cittadini, attraverso indagini preliminari in ciascun quartiere e laboratori nei quali la partecipazione sia reale e trovi effettivo riscontro nell’individuazione dei luoghi, nelle scelte architettoniche e nel progetto di gestione, che deve prevedere un ruolo cruciale per le realtà associative (anche di carattere informale) e per le forme di autogestione.

Le nuove biblioteche di quartiere devono essere tutto questo: piazze del sapere progettate e gestite insieme agli abitanti, luoghi aperti e accoglienti nei quali persone di qualsiasi età e di qualsiasi nazionalità possano trovare ciò che le interessa e ciò di cui hanno bisogno, dove ciascuno possa scoprire qualcosa di nuovo.

 

  • Trasporti e mobilità della città metropolitana

La “città metropolitana” non è costituita necessariamente da un continuum abitativo: ciò che connota una dimensione urbana unitaria è invece il derivato dal sistema di mobilità e di trasporto metropolitano. La prima causa della lentezza dei trasporti pubblici e privati è data dalla congestione del traffico che ha cause strutturali, che hanno la loro origine in scelte di pianificazione errate. Anche le infrastrutture del trasporto pubblico sono inadeguate: Bologna ha una rete ferroviaria locale ad altissima potenzialità che potrebbe coprire con un sistema di binari a raggiera tutto il territorio metropolitano, connettendo numerose parti della città tra loro. Una potenzialità oggi di fatto inutilizzata.

Non aver voluto attuare secondo i piani previsti il Servizio Ferroviario Metropolitano, avendolo al contrario ridimensionato non completandolo secondo i piani originari (l’accordo del 97 con le ferrovie, in occasione della realizzazione dell’Alta Velocità), è stata la scelta alla base del permanere di un enorme pressione del traffico privato sulla città. Il progetto SFM è stato di fatto sempre “snobbato”, nonostante i proclami in senso inverso, rispetto ad altre scelte, rivelatesi di volta in volta errate: il metrò sotterraneo, un progetto finanziato ma inattuabile; il Civis fallito, che ha dato luogo a uno spreco di ingenti risorse oggi sostituito da un altro mezzo, il Crealis, sostanzialmente un filobus come gli altri ma per il quale si sono realizzati lavori in gran parte superflui; il People Mover, vero omaggio allo spreco, un progetto imposto in ogni modo in sostituzione di collegamenti già esistenti e previsti dall’SFM (a volte perfino occultati), sganciando le scelte di investimento da qualsiasi logica di razionale uso del denaro pubblico e delle risorse esistenti.

L’SFM, se portato a regime con le fermate in città completate e attivate, treni alla frequenza prevista di mezz’ora e quindici minuti nell’orario di punta, potrebbe determinare una vera e propria rivoluzione delle abitudini dei bolognesi e degli abitanti dell’area metropolitana, consentendo di raggiungere la città in treno e di spostarsi in treno al suo interno, integrando opportunamente il servizio con parcheggi e collegamento con bus e piste ciclabili (oggi del tutto frammentate e scollegate dal resto del sistema di mobilità).

Politiche di medio termine richiedono una progettazione di ampio respiro e l’attivazione di intelligenze progettuali adeguate. Non vogliamo fare di Bologna una cittadina chiusa all’interno del proprio territorio municipale, ma un territorio metropolitano integrato e solidale.

 

  • Una città trasparente: Open data di tutte le amministrazioni pubbliche

Occorre consentire il libero accesso dei cittadini ai dati e agli indicatori prodotti nei Sistemi Informativi delle Amministrazioni Pubbliche della Città Metropolitana, a partire dalle Aziende sanitarie e dalle Aziende di Servizi alla Persona, senza vincoli che ne limitino la riproduzione e il riuso. Occorre inoltre perseguire il massimo dell’interazione con i diversi utilizzatori dei dati sanitari e sociali e fare rete con analoghi processi nelle aree metropolitane a livello nazionale ed europeo.

Il processo di apertura dei dati andrà governato con l’obiettivo di rendere sempre più fruibile il ricco patrimonio informativo esistente, garantendone rilevanza, qualità e tempestività di pubblicazione. Attraverso la pubblicazione regolare, in formato digitale e aperto, delle informazioni prodotte dai servizi sanitari e sociali, miglioreremo in particolare la capacità delle amministrazioni pubbliche di:

descrivere lo stato di salute della popolazione e fornire informazioni standardizzate che possano essere incrociate con altre, provenienti da fonti diverse, come quelle ambientali (ARPA fornisce già dati aperti);

rendere conto del proprio operato, dei propri risultati e dei costi sostenuti dalla comunità;

– fornire ai cittadini informazioni e strumenti utili per orientarsi nella rete dei servizi, prendere decisioni più consapevoli nelle loro scelte di utilizzazione (in base alle liste d’attesa, ai tempi di attesa nei Pronto Soccorso, alla conoscenza della qualità delle prestazioni erogate nelle diverse strutture), produrre nuova conoscenza e innovazione sociale e contribuire così, attraverso la loro valutazione, a migliorare la qualità dei servizi erogati alla comunità.

Vivibilità e salute, riduzione delle emissioni, risparmio delle risorse ed economia ciclica

 

  • Tutti gli investimenti nella mobilità vanno indirizzati verso il trasporto collettivo e non inquinante

La nostra priorità è il completamento delle stazioni (stazione centrale, prati di Caprara) e delle tratte dell’SFM nonché delle frequenze promesse, che permetterebbero di spostare 70.000 viaggiatori in più dalla gomma (trasporto privato) al ferro (trasporto pubblico), servendo sia la città metropolitana che il comune di Bologna con oltre 20 stazioni nell’area urbana.

In dettaglio: estendere l’SFM verso la Romagna, recuperando il collegamento Bologna-Budrio (esistente verso Molinella-Portomaggiore e abbandonato (Medicina-Massalombarda) e implementare la linea di cintura SFM6 stazione, nuovo Comune, CNR, Navile, Aldini Valeriani, Parco Nord, Fiera e Regione, Pilastro, Centro Meraville, FICO, CAAB e facoltà di Agraria. Garantire il raddoppio della Veneta.

Questi interventi renderebbero di per sé inutile il People mover, sostituito dalla SFM aeroporto-stazione e persino il passante di mezzo (allargamento dell’asse Tangenziale-Autostrada a 3 più 3 corsie con emergenza), per cui è previsto un aumento del transito di veicoli sul nodo Bolognese del 30% (e un aumento delle emissioni del 14% NOx) in una città già asfissiata.

Occorre anche ripensare strategicamente la rete urbana e metropolitana di trasporto treni-filobus-bus, integrando TPER, FER e RFI per ottenere un sistema a elevata intermodalità, con biglietti unificati, sincronizzando orari e scambi tra treni e autobus, permettendo il trasporto bici su treno. Le stazioni devono diventare luoghi ecosostenibili, con centri di posteggio, custodia, noleggio e riparazione di bici, in cui far crescere il car-sharing elettrico e che siano anche momento di vita sociale, culturale, ricreativa. Occorre estendere la rete ciclabile in sede protetta in modo coerente con l’intermodalità e aumentare o il grado di connessione e di fruibilità della rete.

Occorre infine incentivare gli abbonamenti annuali ai mezzi pubblici riducendone il costo e raddoppiandone il numero, disincentivare il trasporto merci diesel utilizzando il meccanismo dell’eurovignette (carbon tax) per il territorio metropolitano finanziando al contempo il TPL.

 

  • Aumentare le aree pedonalizzate

Le aree pedonalizzate a Bologna ricoprono solamente 0,29 mq per abitante. Occorre mettere in atto politiche per una svolta reale nelle scelte sulla città, partendo dal superamento dei “T days” per andare verso una reale pedonalizzazione sette giorni su sette, estendendo la pedonalizzazione in centro e creando aree pedonalizzate nelle periferie, evitando anche il passaggio di bus maggiormente impattanti nelle vie centrali.

In dettaglio: evitare il passaggio dei mezzi pubblici maggiormente impattanti (Filobus e Bus da 18 metri) per le vie San Vitale-Strada Maggiore, Rizzoli-Bassi-Indipendenza, usando maggiormente l’asse Marconi-Mille-Irnerio. Usare le arterie San Vitale-Rizzoli-Ugo Bassi-Indipendenza, e Farini-Carbonesi-Barberie per il passaggio esclusivo dei mezzi pubblici ecocompatibili sia ecologicamente che con l’ambiente urbano, per consentire la mobilità per tutta la cittadinanza, anziani, bambini, disabili. Pedonalizzare progressivamente le strade che formano il reticolo medievale all’interno della cerchia del Mille.

Occorre investire in risparmio energetico e riqualificazione degli edifici pubblici e privati, costituendo una società di risparmio energetica pubblica con partner tecnici (ordine degli ingegneri, degli architetti, dei chimici e dell’ università). Una ESCo mista con la partecipazione delle comunità solari, con il compito di pianificare e progettare prima di appaltare i lavori per la riqualificazione energetica degli edifici. Si otterrebbe così la riduzione delle emissioni di CO2 e della bolletta energetica, l’aumento di valore del patrimonio edilizio e il rilancio del settore edilizio grazie al fatto che la riduzione delle emissioni ottenute attraverso l’efficienza energetica è ambientalmente ed economicamente la più vantaggiosa. Per ogni euro investito si risparmiano 6 kg di CO2 e si aumenta il valore della produzione di 2 euro e 0.7 euro vanno a finanziare nuovi posti di lavoro, in quanto si coinvolgono settori che hanno alti tassi di conversione in valore aggiunto, o grado di occupazione. Per 50 Milioni di investimento si genererebbero così 1000 posti di lavoro.

Una società pubblica con l’apporto di partner tecnici potrebbe inoltre cercare il supporto di istituti di credito per la gestione e l’erogazione dei finanziamenti che, attraverso il finanziamento tramite terzi (FTT), consentirebbe di ridurre l’esposizione del partner pubblico. Una società pubblica avrebbe anche più facilmente accesso a finanziamenti Europei e nazionali che sono a supporto delle politiche di efficientamento così come i fondi della BEI (banca europea degli investimenti) che hanno una linea di finanziamento specifica per questa tematica con finanziamenti superiori ai 50 Milioni di euro di progetto.

 

  • Ridurre e riciclare i rifiuti per creare un’economia circolare

I dati sui rifiuti del comune di Bologna mostrano una produzione di rifiuti pari a 627 Kg per abitante (2 Kg per abitante al giorno), una bassa raccolta differenziata (41%, dati ufficiali 2014) rispetto ad altre città, di cui solo la metà viene avviata a riciclo (portando la quantità riciclata a circa il 25%).

Le ragioni sono abbastanza evidenti: HERA, con il suo peso, ha puntato a sfruttare al massimo i vantaggi economici prodotti dagli inceneritori, a scapito di politiche finalizzate a massimizzare riduzione, recupero e riciclo dei rifiuti, che notoriamente producono migliori effetti ambientali e sociali e a parità di investimento producono più lavoro.

Il bando di gara per il nuovo affidamento è uno dei primi impegni della prossima giunta, per cui serve un mutamento radicale sul piano politico: il gestore si dovrà adeguare alle politiche pubbliche piuttosto che il contrario. Si dovranno operare una serie di investimenti in tecnologie innovative, si dovrà avviare un processo che preveda una riduzione dei rifiuti per abitante, il recupero di materie e uno smaltimento controllato e sicuro, in una visione che tende alla chiusura programmata nel tempo dell’inceneritore e che deve riaffermare il no alla discarica di Imola.

Il meccanismo della differenziata in centro ha evidenziato grandi limiti e va ripensato, così come il frazionamento eccessivo della tipologia di raccolta che non incentiva campagne informative incisive.

  • Acqua pubblica, gestione collinare, manutenzione e dissesto idrogeologico

L’estrazione da parte di Hera di sempre maggiori quantità di acqua dal suolo, dovuta alla mancanza di politiche di risparmio idrico e di riciclo dell’acqua, porta a una subsidenza di 3 cm/anno. L’acqua pubblica deve migliorare il ciclo idrico e assicurare il diritto all’acqua, garantire i lavoratori occupati nel settore e trovare un accordo vantaggioso per le reti date in concessione ad Hera. Occorre installare una fontana in ogni piazza per rendere evidente il ruolo pubblico e il diritto all’acqua per tutti.

Occorre coinvolgere le cittadine e i cittadini che si sono espressi con il referendum in un percorso partecipato per decidere come riprendere in mano pubblica la gestione dell’acqua in vista della scadenze delle convenzioni (per i comuni della città metropolitana 2021-2025). Occorre inoltre sostituire le condotte idriche in cemento amianto, recuperare i manufatti in amianto, lane di vetro e altri materiali cancerogeni nelle scuole e nelle strutture pubbliche, manutenere i marciapiedi e le strade rivedendo l’appalto con global service bocciato dall’anticorruzione.

L’amministrazione deve essere in grado di controllare il territorio e prevenire il dissesto idrogeologico. Il 30% del territorio comunale è infatti interessato da frane attive, quiescenti o aree instabili (fonte PSC 2008).

In questa situazione l’amministrazione ha fatto finora ben poco e ha recentemente passato al consorzio di bonifica renana persino la manutenzione a scopo di prevenzione in collina (a fronte di una contribuzione di per ogni nucleo familiare). Tuttavia, l’affidamento a un ente terzo rappresenta una cessione di controllo, che invece andrebbe rafforzato nella struttura comunale.

  • Agricoltura, alimentazione, realizzazione del grande bosco di pianura

Bologna deve promuovere il sistema che si è costituito negli anni fatto di agricivismo, produzione biologica e alimentazione di qualità, che vede il protagonismo dei mercati contadini delle cooperative di produttori e consumatori, dei gruppi di acquisti solidali, dell’agricoltura di comunità (CSA) che sperimentano forme di produzione, socialità e cultura legati al territorio supportando spesso centri sociali e di aggregazione. Modelli che costituiscono la vera ricchezza di Bologna e che risultano distanti dai modelli dell’attuale amministrazione che ha recentemente autorizzato persino nuovi centri commerciali (a partire dal centro di via Larga) che consumano territorio e sono letali per i piccoli negozi di periferia.

Il “grande bosco di pianura” è un’area boschiva che arriva fino a 200 ettari di cui 60 sono prontamente realizzabili. Serve un bosco che agisca da polmone della città e permetta di ridurre l’impronta del carbonio (catturare la CO2) e di ottenere i crediti per la riduzione delle emissioni.

 

  • Salute in tutte le politiche: introduzione di nuovi indicatori

Occorre introdurre della Valutazione di Impatto sulla salute (VIS) nelle principali decisioni amministrative del Comune di Bologna e dell’Area Metropolitana. La VIS (al contrario della VIA) non è obbligatoria in Europa, anche se molti Paesi la utilizzano correntemente in molti settori. Uno degli esempi virtuosi da seguire è quello dell’Area Metropolitana di Londra.

I processi decisionali da sottoporre alla valutazione di impatto sulla salute riguardano un insieme di politiche e di settori delle amministrazioni pubbliche locali che possono cambiare in maniera significativa il futuro della popolazione in termini di salute e benessere:

  • le decisioni sulla mobilità a partire dalle nanopolveri e dalle altre emissioni;
  • gli Investimenti educativi e culturali (che sostengono mobilità sociale, contrasto agli handicap di partenza di natura sociale ed economica, uso consapevole dei servizi, richiesta attiva dei diritti);
  • le scelte urbanistiche e di disegno della città: bellezza e salute dell’ambiente nel recupero e rigenerazione dell’ambiente urbano e delle periferie;
  • l’alimentazione a partire dai percorsi degli appalti per le mense pubbliche.

Territorio, urbanistica e mobilità

 

  • La “vocazione” di Bologna

La Bologna di oggi è l’esito, non sempre riuscito, delle “vocazioni” che nel tempo le diverse amministrazioni hanno scelto per il futuro della città, delle ambizioni che di volta in volta queste scelte hanno mosso, e della loro traduzione in scelte di piano. Così è stato per la Bologna terziario-direzionale degli ultimi decenni del ’900, che di fatto ha mancato l’incontro con le tendenze spontanee dell’economia locale. E così è, più di recente, con la Bologna a vocazione turistica, che ha tentato di re-inventarsi nel ruolo di “capitale del cibo”, applicandosi alla messa a punto di una città a misura di turista e concentrando la propria attenzione sul centro storico, mentre le altre parti della città restavano dolorosamente trascurate.

Ciò che è andato perduto, in questi decenni, è l’ambizione più antica che Bologna in passato ha cercato di perseguire attraverso la pianificazione urbanistica: la riduzione delle disuguaglianze.

Le diseguaglianze che la città, che ogni città, oggi, per il suo stesso ruolo nell’economia globalizzata, produce, consolida e alimenta – diseguaglianze spaziali e sociali, o entrambe le cose assieme – hanno trovato in questi anni a Bologna un paradossale alleato nell’amministrazione, che, anziché adoperarsi per contrastarle, le ha al contrario, di fatto, accentuate.

Si tratta ora di recuperare la vocazione originaria di Bologna, con l’ambizione di riprendere il progetto di una città capace, anche attraverso il governo del suo territorio, di contribuire a restringere il divario, crescente, tra luoghi eletti e luoghi negletti, tra popolazioni “invisibili” e popolazioni degne di cura e, tra situazioni iper-protette e situazioni invece del tutto abbandonate.

Occorre tuttavia avere ben chiaro che, rispetto al passato anche recente, il quadro socio-economico complessivo è radicalmente mutato, e che non bastano i contro-proclami o le petizioni di principio.

Dal passato si può però recuperare un’altra risorsa, che pure Bologna ha saputo esprimere con forza: la capacità di promuovere innovazione normativa e istituzionale, forzando i gradi di libertà del quadro legislativo vigente – come avvenne al tempo dell’invenzione degli “standard” pubblici di servizio, poi divenuti legge –, e recuperando alla città una funzione di stimolo continuo nei confronti della Regione, del Parlamento e del Governo.

 

  • L’attuazione della città incompiuta

Tra i primi problemi da affrontare ci sono quelli che affliggono le situazioni che, frutto di ambizioni perseguite in passato e poi alla chetichella dismesse, sono oggi luoghi in cui Bologna si mostra più che altrove come città incompiuta, le storie che sono rimaste interrotte.

I comparti che avrebbero dovuto essere il fiore all’occhiello della penultima fase di pianificazione devono essere considerati priorità, recuperando una prassi già condotta in modo episodico di rapporto costante con le cittadine e i cittadini che della loro incompiutezza pagano oggi direttamente le conseguenze.

Molto si è parlato in passato di “laboratori”, come se la città, e segnatamente alcune parti di essa come il quartiere Navile, fossero un perenne terreno di sperimentazione in vitro. Si può oggi recuperare la nozione di laboratorio, connotandola però in modo fattivo, ed applicandola proprio all’attuazione in tempi certi degli interventi incompiuti.

Non può darsi una situazione in cui ogni nuova stagione di pianificazione induce incertezza e disinteresse sugli esiti di quelle precedenti, lasciando i malcapitati che all’epoca hanno creduto nei progetti dell’amministrazione a farsi una ragione del loro inesplicabile abbandono.

Occorre procedere, in stretto rapporto con la cittadinanza, anche a quelle varianti che le difficoltà di attuazione ormai cristallizzate rendono necessarie, completando quegli interventi anche sotto il profilo di una compiuta integrazione nell’ambito dei servizi, da quelli a rete a quelli per la mobilità a quelli di vicinato. Agli abitanti della città sinora incompiuta va restituita la pienezza della cittadinanza.

 

  • Nuove centralità periferiche

Da molto si parla della necessità di abbandonare il paradigma del policentrismo. Già chiave interpretativa degli assetti territoriali alla scala della regione e dell’area metropolitana, il policentrismo, si dice, va superato in quanto propone inutili e costose duplicazioni, nella dotazione di ogni “centro” di un’eguale o comparabile livello di servizi pubblici, di opportunità, di chances di vita.

Scendendo di scala, anche e proprio di fronte all’esito dell’ultima fase delle politiche urbane a Bologna – concentrate su una cosmesi puntigliosa del centro storico – invece il policentrismo pare essere un’ottima prospettiva da cui guardare alla realtà urbana. Se davvero Bologna non vuole essere un grosso paese di provincia, sarà allora il caso di fare in modo che non tutti i suoi “mondi vitali” esauriscano se stessi tra Piazza Maggiore, Piazza Santo Stefano e Porta Ravegnana con le Due Torri.

Non tutta l’attrattività urbana deve restare asserragliata nel centro, mentre i quartieri delle periferie, con le loro imponenti quote di edilizia pubblica di qualità, con le loro piazze, i loro parchi e i loro giardini, restano desolati e deserti di ogni attività che possa rendere gradevole, per gli abitanti, uscire di casa.

Si tratta di mettere in campo un complesso di politiche, non solo urbanistiche, che coinvolgono il commercio di vicinato, i mercati, la rete di biblioteche di quartiere, la cultura nelle sue diverse manifestazioni, a cominciare dal Cinema in piazza che ricorre ogni estate. Un Cinema in piazza decentrato non solo nei sei quartieri ‘istituzionali’, ma che recuperi le centralità consolidate all’interno delle vecchie zone (San Donnino, la Barca, Santa Viola, Corticella) per proporre in simultanea, in una stessa serata, rassegne differenti e dirette a diverse fasce di pubblico, riportandole a vivere e a prendere parte alla Notte cittadina.

La figura del Sindaco della Notte, oltre la semplice analogia con esperienze simili già condotte in altri paesi, è quella cui riferirsi anche per questo genere di progettazione culturale, che non trascuri il problema, storicamente negletto, dei collegamenti tra centro e periferie, e di quelli con il resto dell’area metropolitana, tendenzialmente esclusa da ogni offerta culturale a meno di non muoversi sempre e comunque in auto, spesso, fra l’altro, senza godere di adeguate strutture di parcheggio.

L’integrazione tra le diverse popolazioni, la cittadinanza metropolitana, si costruisce anche attraverso azioni di questo tipo. Integrare le politiche urbanistiche con una politica di uso o, meglio, ri-uso, degli spazi pubblici, nell’arco della giornata e della notte può fornire uno strumento in più nella declinazione di politiche per la sicurezza delle cittadine e dei cittadini che, ponendosi sul lato della prevenzione, risultino alternative o al più complementari a quelle di repressione e controllo del territorio. La zone che vivono hanno maggiori probabilità di essere percepite, e di essere in concreto, più “sicure”, nei confronti di deserti e anonimi luoghi-dormitorio.

 

  • Le opportunità e la città pubblica

Con la disponibilità alla pianificazione comunale di un numero rilevante di edifici e terreni ex militari, e delle aree ex ferroviarie della zona Ravone-Prati di Caprara, si aprono nuove e rilevanti opportunità per un rilancio sostanziale della città pubblica. Operando all’interno degli accordi già in essere, e procedendo, se necessario, alla loro modifica puntuale, la restituzione alla città del complesso di questi beni permette di ragionare su un complessivo nuovo piano dei servizi. Un piano che verifichi e aggiorni, in modo empirico, la soddisfazione delle cittadine e dei cittadini per le dotazioni esistenti, e rilevi, allo stesso modo, là dove esistono, le carenze da colmare, per intervenire attraverso la dotazione di servizi, restituiti al loro originario significato, di traduzione materiale e praticabile di altrettanti diritti di cittadinanza.

Le nuove opportunità rappresentano anche l’occasione per operare un’integrazione tra centro e periferie che porti questi mondi, oggi spesso separati e letteralmente non comunicanti – una percentuale non trascurabile di residenti periferici si reca molto raramente o addirittura mai, nel centro della città – a connettersi fra di loro, con il supporto di precise iniziative culturali o di intrattenimento pluri-sede, o decisamente collocate nelle periferie e con il contributo diretto delle cittadine e dei cittadini e del mondo delle associazioni, per fa sì che queste divengano il recapito sia dei residenti nelle zone centrali sia dei turisti.

 

  • Rigenerazione urbana, politiche abitative, innovazione tipologica

Legato all’obiettivo generale della riduzione del consumo di suolo, e a quello contestuale del progressivo efficientamento energetico, il tema della rigenerazione urbana deve divenire la guida degli interventi sul patrimonio edilizio esistente, a partire dal patrimonio abitativo pubblico e/o in gestione ACER. Il soggetto pubblico può in questo modo dare un impulso non marginale anche alla relativa innovazione tecnico-produttiva, considerata una sorta di nuova frontiera per il settore dell’edilizia, sfiancato e debilitato dagli ultimi anni di crisi.

In questo ambito, sempre partendo dallo stock edilizio pubblico, va sperimentato un approccio diffuso alla trasformazione tipologica degli alloggi di maggiori dimensioni in più unità immobiliari di metratura inferiore, venendo incontro alle caratteristiche familiari e reddituali dell’utenza. Nei confronti di un’utenza costituita da nuclei monopersonali e da coppie, un alloggio di minori dimensioni può essere più adatto sia alle esigenze strettamente abitative, sia, sotto il profilo delle spese fisse, come il riscaldamento o la cura degli spazi comuni, alle possibilità di reddito – ragionamento che vale tanto nei confronti della popolazione anziana, destinata, come ci dicono le proiezioni demografiche, ad aumentare, quanto nei confronti dei giovani, single o in coppia.

Il tema del frazionamento delle unità immobiliari richiede comunque una revisione di quanto oggi previsto in materia di oneri di urbanizzazione, allo studio della quale può essere opportuno convogliare competenze comunali, regionali e di ACER. Se riferito al patrimonio pubblico allargato, questo tema è un tentativo di arricchire le risposte possibili alla situazione di emergenza abitativa perdurante in città, che si è manifestata con clamore negli episodi delle occupazioni e degli sgomberi.Una città in cui non ci sono occupazioni è una città che ha messo l’emergenza abitativa al primo posto dell’agenda dei problemi da affrontare e da risolvere, una città che non ha lasciato, volgendo gli occhi da un’altra parte, che problemi ben conosciuti si aggravassero fino a raggiungere il punto di rottura.

Anche in questo caso, mettendo mano da subito alla ricerca di soluzioni utilizzabili al presentarsi della prima emergenza – e non trascurando lo studio di soluzioni strutturali -, è necessario che il monitoraggio delle condizioni abitative al limite sia attento e costante.

Ma è necessario anche che la politica abitativa, la politica “della casa”, che tanta parte ha avuto nello sviluppo urbanistico della Bologna del dopoguerra, derubricata oggi ad articolazione del welfare socio-sanitario – come se il non avere una casa in proprietà rappresentasse una particolare patologia –, ritorni al centro di ogni trasformazione urbana, andando alla stesura (o alla revisione) di convenzioni mirate anche con i soggetti privati, che assegnino alla casa popolare il ruolo pieno di “servizio pubblico”, ovvero di garanzia del godimento di un pieno diritto di cittadinanza, che ha avuto nel tempo e che oggi pare dimenticato.

Allo stesso modo, a fronte delle diverse e acute situazioni di emergenza abitativa che oggi si manifestano drammaticamente a Bologna, è necessario che la politica delle “dotazioni” urbane punti, di concerto con ACER e con gli operatori privati, esplorando i canali di finanziamento praticabili, e a partire dal patrimonio pubblico inutilizzato, alla costituzione di un vero e proprio “demanio comunale di emergenza”, di uno stock abitativo opportunamente dimensionato che consenta direttamente al Comune di far fronte in modo dignitoso alle situazioni cui oggi si risponde con gli sgomberi.

 

  • Mobilità sostenibile e SFM

L’approvazione, assieme a Regione e Governo, dell’Accordo sulla realizzazione dell’allargamento in sede dell’asse tangenziale e dell’autostrada A14 nel medesimo tratto – in assenza del progetto preliminare dell’opera, senza avere fornito alcuna informazione di merito alle cittadine e ai cittadini che si troveranno direttamente esposti all’impatto considerevole dell’opera a regime, e prima ancora al disagio di un imponente cantiere, senza nemmeno che il Sindaco, che ha approvato, e che dovrebbe essere il custode della salute della cittadinanza, conoscesse la portata degli inquinamenti cui si accinge a sottoporli, e di conseguenza il grado di efficacia delle mitigazioni più o meno improvvisate proposte –, si è svolta in maniera autoritaria, solitaria e affrettata. Non certo una prova di buona amministrazione.

Ci sono molti buoni motivi per ritenere il cosiddetto Passante di Mezzo un’opera non sostenibile, in termini ambientali e della salute, in termini sociali ed economici, da parte della città di Bologna.

Si tratta di una decisione assunta a dispetto dello stesso voto del 2011, quando nulla di simile era previsto dal Piano Strutturale vigente. Si tratta di una decisione presa senza aver ascoltato in merito le cittadine e i cittadini che fisicamente con il Passante dovranno fare i conti – a dispetto di qualsiasi dichiarazione di apertura alla partecipazione e di trasparenza. Si tratta di una decisione che contraddice vistosamente, fino a inficiarne qualsiasi beneficio, l’ostinazione con cui invece, allo stesso tempo, si penalizza l’uso dell’auto privata in città, in nome di una presunta sostenibilità ambientale che risulta alla fine del tutto vanificata dalla potenza e prossimità del rilascio di emissioni connesso al nuovo Passante.

Il recente sblocco dei finanziamenti ex metrò da parte del CIPE, consente di dare finalmente corso al compimento del progetto relativo al Servizio Ferroviario Metropolitano dell’area bolognese, attraverso la messa a disposizione della linea di cintura e del binario passante, in Stazione Centrale – dove oggi si colloca la storica frattura tra il Piazzale Est ed il Piazzale Ovest –, attraverso la messa in funzione del raccordo Stazione-Fiera; attraverso la realizzazione delle Stazioni dei Prati di Caparra, di via Zanardi, di via Libia-Sant’Orsola. In generale, attraverso la realizzazione del complesso di quei collegamenti la cui assenza lascia oggi disconnessi e malserviti interi comparti pianificati in passato e di cui stenta a decollare l’attuazione.

Contestualmente, va avviata una campagna di conoscenza e di promozione dell’uso del Servizio Ferroviario presso l’utenza potenziale, che tenda a rimuovere gli ostacoli che oggi ancora ne impediscono l’uso in area urbana, anche se un terzo circa della popolazione abita a meno di un chilometro da una fermata o stazione, e rilanci l’uso del SFM anche attraverso la previsione di stazioni che non restino impresenziate e prive di servizi, specie nelle ore serali.

Va decisamente messa in atto la politica di integrazione tariffaria treno-bus, e una politica reale e non rapinatoria relativa ai parcheggi scambiatori anche in area urbana: bisogna mettere in campo ogni azione tesa a rendere il SFM un’alternativa conveniente e desiderabile da parte dell’utenza. Si tratta di un complesso di azioni che il Comune deve promuovere in prima persona – e che non possono essere lasciate ad inesistenti automatismi attuativi degli accordi in essere.

 

  • Pianificazione del traffico e pedonalizzazione

Va poi ripensato l’intero quadro della mobilità urbana, da troppi anni trascurato in termini di analisi empirica dei flussi di traffico. Solo su questa base, abbandonando una volta per tutte la pessima abitudine all’improvvisazione pseudo-creativa, sarà possibile dotare la città di un vero piano della mobilità, all’interno del quale disciplinare anche il traffico veicolare, intervenendo anche a modificare e aggiornare, dove necessario, le disposizioni del contratto di servizio in essere con Tper, perché il servizio bus passi anche nelle zone a bassa domanda, senza lasciare, come oggi capita, i cittadini, colpevoli di esser pochi e lontani, al proprio destino.

Un ragionamento analogo va fatto per la pedonalizzazione, che non può continuare a seguire logiche semplicemente incrementali. Non conta infatti qui la mera “quantità”, ma la qualità degli spazi resi accessibili. La pedonalità deve rientrare in un ragionamento organico che contempli l’intera gamma delle modalità degli spostamenti delle persone, integrandosi con lo stato di fatto degli ambiti edilizi del centro e della periferia storica, e con le prospettive legate agli interventi di riuso/rigenerazione degli edifici e degli spazi aperti, connessi da un lato al nuovo approccio alle centralità periferiche, dall’altro al quadro delle nuove opportunità restituite alla città con il complesso delle aree militari e ferroviarie.

Lavoro e giustizia sociale: fare di Bologna la città meno diseguale d’Europa

 

  • Oltre il lavoro. Per un’amministrazione anti-austerity

Anche a Bologna il lavoro non basta più. Quella che una volta era la città con il tenore di vita tra i più alti d’Europa oggi vede i propri cittadini faticare a mantenere la propria famiglia, permettersi un po’ di svago nel fine settimana o durante le ferie, garantire un’educazione ai propri figli, vivere una vita dignitosa. Se questo succede è anche perché l’attuale amministrazione cittadina ha scelto di adeguarsi ai dettami dell’austerity, privatizzando i servizi una volta garantiti a basso prezzo, facendo gravare sempre più sulle spalle dei cittadini i loro costi. L’austerity ha sottratto negli ultimi sette anni 19 miliardi grazie al patto di stabilità e 12 miliardi di mancati trasferimenti erariali, facendo salire alle stelle il contributo complessivo dei Comuni alla stabilità finanziaria (+ 909%). I Comuni sono, dunque, quelli che hanno pagato di più il peso delle scelte politiche del governo nazionale. La nostra amministrazione combatterà su ogni fronte perché non sia più così, a partire dall’ANCI (associazione nazionale comuni italiani) e stringendo alleanze con le altre “città dell’alternativa”.

 

  • Rispetto dei diritti dei lavoratori comunali, compresi quelli in appalto: un codice di responsabilità sociale per il Comune

Chi ha pagato di più il peso delle scelte politiche del PD e dell’attuale sindaco sono i lavoratori pubblici. È stato stimato che i tagli di questo governo hanno avuto un impatto significativo sul personale delle amministrazioni comunali, diminuito dell’11%, pari a oltre 60.000 lavoratori. Non va certo meglio per coloro che hanno mantenuto il posto di lavoro ma che si sono visti bloccare gli aumenti stipendiali, o per coloro che, in un contesto dove le amministrazioni non assumono più, si trovano a svolgere un lavoro precario o a partita IVA. La difficoltà maggiore riguarda i lavoratori in appalto, governati dalla logica del massimo ribasso che li costringe a lavorare sempre di più a fronte di un compenso sempre minore, nei confronti dei quali il Comune si è spesso lavato le mani scaricando le proprie responsabilità. Il Comune si deve invece dotare di un proprio codice di responsabilità d’impresa, che riconosca ai lavoratori i diritti e gli scatti di anzianità, che metta al bando la precarietà e che si faccia carico delle mancanze delle aziende in appalto, garantendo nei cambi d’appalto il mantenimento del personale, così come le retribuzioni e le contribuzioni nel caso non vengano corrisposti dalle aziende in appalto.

 

  • Da capitale dei voucher a capitale del lavoro di qualità: le ricette per una città #voucherfree

Negli ultimi anni l’amministrazione comunale ha concentrato molti dei suoi sforzi nella creazione di lavoro, senza però mai interrogarsi sulla sua qualità. Il risultato di questa scelta miope è Bologna capitale dei voucher. Sono infatti oltre 3 milioni i voucher venduti nella provincia di Bologna, la maggioranza nel turismo e nel commercio, e riguardano principalmente lavoratori compresi tra i 20 e i 30 anni, quelli che non riescono più ad avere un contratto di lavoro. Il voucher, da strumento di pagamento per le prestazioni occasionali, è divenuto il simbolo di una mercificazione del lavoro e di una flessibilità senza controllo, dove i lavoratori sono privi di qualsiasi diritto anche quando svolgono per anni lo stesso lavoro. Occorre quindi porre un freno a questa deriva, integrando nei patti di collaborazione con gli esercenti il rispetto dei diritti dei lavoratori. L’amministrazione comunale non può infatti collaborare con chi utilizza i voucher per tagliare i costi e i diritti dei lavoratori, o per legalizzare prestazioni di lavoro nero. Proponiamo inoltre di istituire un ufficio per il whistleblowing (dall’inglese fischiare), dove i lavoratori possano segnalare casi di abuso dei voucher e concordare le modalità di intervento.

 

  • Reddito minimo cittadino

Il livello di povertà raggiunto nella nostra città è divenuto intollerabile: sono quasi 30 mila le famiglie che a Bologna vivono sotto la soglia di povertà relativa. Per questo pensiamo sia necessario che anche Bologna, dopo Napoli, si doti di un reddito minimo cittadino, che garantisca a chi si trova in condizione di povertà relativa l’erogazione di una somma monetaria diretta minima, e l’accesso gratuito a tutti i servizi comunali: trasporti, scuole dell’infanzia, cinema, teatri, servizi di cura.

 

  • Banca del tempo

Gli orari di lavoro sono diventati sempre più incompatibili con le esigenze di vita. Prendere i figli da scuola, accompagnarli a fare attività extra-scolastiche, prendersi cura dei propri parenti sono diventate attività sempre più difficili da svolgere. Sempre di più diventa difficile dedicare il proprio tempo alla cura del territorio e alle attività di volontariato e associazionismo. Istituiremo quindi una banca del tempo comunale, dove i cittadini possano mettere a disposizione il proprio tempo libero e riceverne da altri. Una misura che serva anche a combattere l’individualismo che caratterizza sempre di più anche la nostra città, facendo di Bologna la città della solidarietà e della condivisione.

 

  • Città incubatore

Bologna è anche una città con molte risorse, a partire dalle molte idee dei giovani che spesso però non riescono a svilupparsi perché ostacolate dalla burocrazia. L’amministrazione comunale su questo può fare molto, agevolando i giovani imprenditori e fornendo loro gli strumenti necessari a sviluppare la propria imprenditorialità. Vogliamo fare di Bologna una città incubatore: riutilizzare i beni pubblici dismessi per costruire spazi di coworking e fablab. Solo una nuova imprenditoria dal basso può assicurare a Bologna quello che le grandi azienda multinazionali non riescono a garantire, ossia: sviluppo, stabilità e qualità del lavoro.

La cultura, un motore ecologico

 

  • Un gioco di squadra

A Bologna la cultura sembra manifestarsi ed esprimersi in tutti i suoi potenziali: da un lato abbiamo una città che – con il suo humus fertile creato dalla presenza dell’Università, dei giovani e del suo essere storicamente luogo di incontri e scambi – continua a permettere la sperimentazione, la ricerca, la produzione di nuovi immaginari e di nuove pratiche estetiche attraverso i linguaggi del contemporaneo. Dall’altro, il sistema culturale cittadino è caratterizzato da una solida rete di istituzioni che offrono stabilmente occasione di conoscenza e svago, per favorire coesione sociale, senso critico e di identità. In entrambi i casi è una cultura che è sia vocazione sia lavoro, che si manifesta tanto nei teatri quanto nelle piazze e nei club, nelle biblioteche quanto nelle scuole, nei musei come negli spazi della città da recuperare, per mettere in relazione chi quel territorio lo abita e al contempo fornirgli gli strumenti per abitarlo realmente, sentendosi parte della storia e immaginandone il futuro.

La ricchezza del tessuto culturale cittadino – di cui fanno parte tanto le grandi istituzioni (pubbliche e private), quanto le realtà di produzione indipendente, quanto l’associazionismo e le esperienze di aggregazione spontanea – posiziona Bologna come una delle città europee in cui meglio coesistono le tre diverse espressioni del fare culturale: formazione, produzione e diffusione. In un contesto così complesso, diventa sempre più necessario che da un lato l’amministrazione pubblica definisca chiaramente gli indirizzi di politica culturale, facendosi carico e sentendosi riconosciuta una funzione di regia e coordinamento complessivo, e che dall’altro ciascuna realtà che compone il sistema sia consapevole e valorizzata nel proprio ruolo.

 

  • La riorganizzazione del comparto pubblico

Alla luce della crisi sistemica degli ultimi anni, diventa urgente fare delle scelte strategiche – supportate da investimenti sostanziali e specifici – e permettere ai diversi operatori culturali di incontrarsi, dialogare e collaborare per affrontare la sfida di produzione, valorizzazione e promozione verso nuovi pubblici. Scopo dell’ente pubblico, pertanto, è conoscere i vari soggetti, facilitandone le connessioni e potenziandone le collaborazioni. Per questo è importante:

  1. accorpare in un unico vertice il coordinamento di ambiti attualmente separati (quelli culturali e quelli delle industrie creative e del turismo culturale) al fine di aumentare l’efficienza-efficacia delle azioni, anche attraverso il potenziamento dell’ufficio dedicato alla progettazione europea, sia come promotore per il reperimento di nuovi fondi sia come partner nella progettazione degli operatori privati;
  2. coordinare e monitorare l’attività delle proprie Istituzioni (Cineteca, Musei, ERT-Arena del Sole/Teatro Comunale) e sollecitare una sempre maggiore apertura all’iniziativa privata per lo sviluppo di sinergie e azioni trasversali e innovative, attuando governance partecipative reali. Tra le istituzioni vi è il caso specifico del MAMbo, a cui afferisce tutto il settore delle arti visive, particolarmente bisognoso di intervento pubblico, di cui appare ancora necessario chiarire il posizionamento: a fronte di fondi limitati per condurre attività espositive e d’acquisizione complete, di un sistema di gallerie private che in città appare piuttosto bloccato e, per contro, di un’offerta formativa di settore significativa con l’Università e l’Accademia di Belle Arti, il MAMbo potrebbe più felicemente ricoprire la fase intermedia tra la formazione e la professione artistica, attraverso un sostegno agli artisti nella sperimentazione di medio-lungo periodo, concependo così il museo stesso come centro di ricerca e laboratorio;
  3. a partire dall’efficace sistema di convenzioni attualmente in uso nel Settore Cultura e dal nuovo Regolamento dei Beni Comuni del Comune di Bologna, occorre avviare un momento di analisi degli strumenti per il dialogo e il supporto al privato per l’attivazione di nuove pratiche sperimentali e partnership che sostengano non solo iniziative spot, ma vere e proprie progettualità di medio-lungo termine;
  4. occorre poi ricercare una collaborazione con fondazioni ed enti privati, culturali e non, in un’ottica di co-progettazione, con l’obiettivo di mettere a sistema l’esistente e valorizzare la pluralità dell’offerta, senza interferire sulle programmazioni specifiche;
  5. infine, occorre promuovere l’offerta culturale complessiva in un’ottica di massima diffusione della proposta sia verso pubblici già consapevoli sia verso nuovi pubblici, da formare e avvicinare, abbattendo le barriere d’accesso e creando sempre maggiori opportunità per i cittadini.

 

  • Il sostegno agli operatori privati

In un momento di contrazione delle risorse economiche è necessario che l’amministrazione pubblica espliciti chiaramente con quali soggetti intende interloquire e quali tipi di sostegno possano essere avanzati a seconda della natura degli operatori e dei loro scopi statutari, per rafforzare il loro posizionamento e la loro capacità di produrre valore socio-culturale.

Appare fondamentale distinguere in base a un approccio amatoriale/professionale alla cultura, criterio che non comporta un giudizio di valore positivo o negativo – perché entrambe le tipologie sono fondamentali in un’ottica di fertilizzazione della base e di crescita del settore – ma è essenziale per mettere a frutto le peculiarità di ognuno all’interno di un sistema organico. Di conseguenza:

  1. per la destinazione di contributi economici diretti è necessario definire regole, indirizzi e obiettivi chiari sui quali ammettere la possibilità di erogazione, lontana da una valutazione dello “storico” o da criteri riconducibili alla soggettività del valutatore. Le regole devono essere poche ma imprescindibili (plausibilità e sostenibilità economica/ecologica della proposta, credibilità del richiedente, rendicontazione trasparente, tutela e stabilizzazione dei lavoratori etc.), così come gli indirizzi e gli obiettivi di natura variabile o mutevoli nel tempo, a seconda delle esigenze strategiche dell’Amministrazione;
  2. tra le modalità di sostegno, è fondamentale approfondire, a seconda dell’interlocutore, anche le forme indirette, tra cui: incentivi fiscali, fondi di garanzia, facilitazione nell’accesso al credito, nuove modalità di affidamento spazi e gestione partecipata di beni e servizi continuativi;
  3. occorre introdurre un momento di confronto su tali criteri in fase “pre-competitiva”: questa impostazione permette di individuare in maniera trasparente – a fronte dei vincoli oggettivi di bilancio e di saturazione del mercato che la pubblica amministrazione deve gestire – quali proposte rientrino o meno nei programmi di sostegno, senza per questo considerare non meritevoli gli esclusi, ai quali possono comunque essere riconosciute determinate facilitazioni;
  4. serve poi impostare un sistema di verifica condiviso per valutare l’impatto culturale (non inteso in termini puramente numerici di afflusso di pubblico) e gli esiti delle attività sostenute dalla pubblica amministrazione;
  5. le associazioni e le realtà amatoriali che non dovessero rientrare entro i criteri individuati, devono trovare in altri livelli di governo e in altri strumenti il riconoscimento delle proprie attività (Cittadinanza Attiva e Regolamento dei Beni Comuni, Quartieri).

 

  • Bologna torna laboratorio di produzione

Tra le principali vocazioni che Bologna può vantare c’è quella di città-laboratorio, non solo a livello politico, ma anche nel settore culturale, forte del ruolo dell’Università, delle Accademie, in generale della presenza giovanile studentesca: un fermento che ha prodotto generazioni di artisti e movimenti oggi significativi a livello nazionale e internazionale, gruppi di lavoro e professionisti che si sono riconosciuti e stabilizzati a Bologna o che da quel periodo tuttora traggono ispirazione e modelli, generando così prodotto culturale, ma anche valore sociale ed economico. Bologna deve puntare nuovamente su questo suo aspetto caratteristico. Questo significa rivendicare come la “Cultura” non possa prescindere da un momento centrale come la produzione artistica in sé e per sé, momento di ricerca e crescita dell’artista e della sua comunità, un momento generativo di nuovi contenuti e conoscenza che sposta l’equilibrio su presente e futuro. Bologna è meno schiava di altre città italiane del proprio patrimonio materiale, quindi può scegliere di sostenere i tempi lunghi e i ritorni non immediati della produzione e sperimentazione artistica, per distinguersi, attrarre e creare in città nuova linfa e nuovi modelli di sviluppo del settore, dalle arti visive al cinema, dal teatro alla musica, dal design al multimediale, valorizzando le risorse locali attraverso il loro inserimento in reti di livello nazionale e internazionale.

 

  • Le Biblioteche, avamposti di conoscenza

Come espresso nel Manifesto Unesco Biblioteche Pubbliche, “la libertà, il benessere e lo sviluppo della società e degli individui […] potranno essere raggiunti solo attraverso la capacità di cittadini ben informati di esercitare i loro diritti democratici e di giocare un ruolo attivo nella società. La partecipazione costruttiva e lo sviluppo della democrazia dipendono da un’istruzione soddisfacente, così come da un accesso libero e senza limitazioni alla conoscenza, al pensiero, alla cultura e all’informazione”. Le biblioteche possono rappresentare quei presidi sul territorio in cui coltivare l’orizzontalità tra le persone – senza distinzione di età, nazionalità, sesso, religione, lingua e condizione sociale –, affinché possano proseguire il proprio percorso di formazione, ovvero possano gratuitamente informarsi, conoscere, accedere a risorse per costruire e sviluppare quel processo di educazione continua che la società contemporanea richiede (“lifelong learning”).

Le biblioteche dell’Istituzione Biblioteche di Bologna, parte del più complesso sistema bibliotecario di Bologna (pubblico, universitario, privato, altri enti), garantiscono tutto questo. Diversi fattori però – nuovi bisogni, innovazioni tecnologiche, nuove urbanizzazioni, contenimento della spesa, pensionamento del personale – rendono necessaria una revisione sistemica della rete delle biblioteche pubbliche cittadine e metropolitane. La valorizzazione e l’implementazione di questo servizio socio-culturale passa attraverso la riorganizzazione di spazi, servizi e risorse e l’ipotesi di nuove sperimentazioni e possibilità di dialogo e collaborazione con altri soggetti attivi sul territorio, in particolare per quanto riguarda ambiti quali l’educazione permanente e le nuove forme di socialità e integrazione.

 

  • Educarsi alla cultura, dalla Scuola all’Università

È necessario creare un dialogo molto più ricco tra scuola e offerta culturale della città. Sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, infatti, quel pubblico potenziale che potrà partecipare e sostenere con la propria fruizione le proposte culturali future o farsi autori e promotori di queste. Tutte le istituzioni, le realtà di produzione indipendente e le associazioni dovrebbero essere stimolate in una politica di promozione culturale rivolta a giovanissimi e giovani, con forme di coinvolgimento diversificate, non solo quella della pura fruizione (ad esempio: il coinvolgimento di studenti di scuole secondarie di secondo grado nella realizzazione dei festival culturali della città).

In questa visione, è importante che con l’Università di Bologna – in quanto primo ente di produzione di cultura e sapere in città e per quanto autonomo e indipendente – si lavori al fine di una maggior permeabilità tra didattica e azione, tra studio e professione, tra sapere e saper fare. Il Settore Cultura potrebbe fare da apripista su alcune azioni pilota (per quanto il tema sia ascrivibile alla Giunta nel suo complesso), ad esempio:

  1. avviando un laboratorio permanente triangolare tra pubblica amministrazione, ricercatori, operatori e cittadini per approfondire alcuni ambiti e temi d’interesse, trovare forme di occupazione e affinare la formazione dei neo-laureati;
  2. intensificando le azioni tra le proposte culturali della città e il pubblico degli studenti, con una partecipazione attiva dell’Università nel farsi veicolo e diffusore di determinate proposte e nel riservare incentivi specifici per chi vi partecipa;
  3. Creando una relazione più fertile tra le ricerche in ambito universitario, che troppo spesso non trovano applicazione, e le nuove prospettive di sviluppo della città. Una condivisione tra pubblica amministrazione e Università dei fronti, delle direzioni e dei possibili esiti di ricerca potrebbe alleviare il Comune da spese di consulenze esterne, dare alle ricerche prospettive più concrete di realizzazione, dare occupazione ai giovani ricercatori.