L’ultimo caso di cronaca, la morte di una donna per overdose ritrovata in un vagone abbandonato alla stazione, riporta prepotentemente alla ribalta la necessità di interrogarsi sull’approccio più consono al fenomeno del consumo di droga, quello delle politiche della riduzione del danno. Tale approccio negli ultimi anni ha perso forza e intensità a causa di una visione il più delle volte miope e moralista nell’elaborazione di politiche di contrasto al fenomeno.

Tralasciando ora l’excursus storico che ha visto a partire dal 1993 in Italia, con il referendum abrogativo delle norme punitive del consumo personale, una nuova elaborazione di pensiero e politiche sul territorio sul modello di paesi come l’Olanda e Inghilterra, è forse necessario rimarcare nuovamente quale sia il nucleo caratterizzante di questo approccio, la cui strategia sanitaria e sociale ha lo scopo di diminuire i rischi e i danni correlati all’uso di sostanze stupefacenti.
Sarebbe ormai il caso di prendere atto in modo definitivo del fallimento dei due modelli teorici d’interpretazione del consumo di droghe più in uso: quello morale che dipinge il consumatore come un criminale, moralmente responsabile e quindi da punire, e quello medico che lo percepisce come un malato, una vittima della sostanza da sottoporsi alla “necessaria cura”, deresponsabilizzandolo di fatto.  I due modelli hanno fallito a livello individuale e collettivo e, pur differenziandosi nella definizione di consumatore, puntano allo stesso obiettivo: l’eliminazione del consumo.
Non fanno distinzione tra uso e abuso, non lasciano spazio a modelli di consumo controllato: l’unico orizzonte possibile è l’astinenza, spesso unica precondizione necessaria per avviare il trattamento.
La “riduzione del danno” si propone al contrario come modello pragmatico e umanitario. Non si pone come obiettivo l’eliminazione del consumo, ma la gestione dei danni e dei rischi correlati a esso. Informa, responsabilizza il consumatore, pone in essere azioni (pensiamo alla sostituzione delle siringhe) volte a ridurre i rischi per la salute individuale e collettiva.
E’ un tentativo di andare oltre. Oltre una visione moralista, criminalizzante o deresponsabilizzante del consumo, è una visione “neutra”: prende atto che nell’ambito dell’uso di droghe vi è una galassia di comportamenti infiniti, dalla semplice e saltuaria sperimentazione all’abuso cronico.
La metodologia è graduale, propensa a cogliere diversi obiettivi intermedi: un’informazione corretta sulle sostanze e sui loro effetti, il contenimento di un passaggio a modelli di consumo più problematici. L’astinenza è presente solo come obiettivo finale.
Si tratta, in ultima analisi, come citato in letteratura, di “abbassare la temperatura” del fenomeno dell’uso di sostanze, riportandolo in termini accettabili. Il consumatore non viene stigmatizzato, non viene marginalizzato e stereotipato, si cerca l’apertura di un dialogo, di uno “scambio” anche a livello relazionale, nel quale sia presente anche una dimensione informativa e competente sulle ricadute sociali e di vita del singolo, quali la perdita di reti relazionali significative, di lavoro e di conseguenza della centralità nella propria vita. L’incontro non è più tra freddi professionisti delle dipendenze e soggetti passivi problematici, ma tra essere umani. E forse la forza rivoluzionaria della “riduzione del danno” sta proprio qui, il cuore di queste politiche è proprio questo: umanizzare i contesti, non disumanizzarli attraverso un asettico e sterile tecnicismo. Naturalmente la formazione teorica e di competenze relazionali degli operatori in tal senso ne diviene l’assunto imprescindibile.

Perché oggi scriviamo di questo? Semplice, perché ogni volta che una giovane vita ci lascia, sentiamo il dovere di ricordare che tutto ciò non è inevitabile: si può, si deve provare a cambiare. Questa volta lo dovevamo a una giovane donna ligure di venticinque anni trovata morta dentro una carrozza in disuso sul binario due della stazione di Bologna.
Gruppo Welfare Coalizione Civica

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