Federico Martelloni Coalizione Civica per Bologna
Intervento in Consiglio Comunale del 19 settembre

Oggi abbiamo giustamente ricordato Carlo Azeglio Ciampi, scomparso all’età di 95 anni, come un uomo delle istituzioni che ha dato molto a questo paese. Ed al quale, come era giusto, questo paese ha dato molto, a propria volta.
Io intervengo per ricordare altri uomini, che pure hanno dato qualcosa a questo paese, ma ai quali questo paese ha dato, in cambio, la morte.
Una morte prematura, brutale e ingiusta.

Presidente, lei conosce i toni e i modi con cui sono solito intervenire. Ebbene, mi scuso in anticipo se oggi saranno diversi da quelli consueti, perché oggi io parlo del fatto che in Italia, in Emilia Romagna, non solo si muore sul lavoro – com’è successo, ancora 2 giorni fa, a Giacomo Campo, venticinquenne dipendente della Steel service s.r.l., schiacciato da un rullo all’Ilva di Taranto o ad Antonio Alleovi, dipendente Atac rimasto fulminato mentre eseguiva un intervento di riparazione urgente sulla tratta Roma-Viterbo – ma si può morire ammazzati mentre si lotta per difendere il lavoro e i diritti, com’è accaduto ad Abd Elsalam Ahmed El Danf pochi giorni fa a Piacenza.
In una mattina di settembre del 2016 ci siamo svegliati scoprendo che si può morire ammazzati mentre si esercita una libertà garantita dal primo comma dell’art. 39 della costituzione: la libertà sindacale, il cui formale riconoscimento attestò, più di ogni altra cosa, la ferma volontà dei padri costituenti di chiudere i conti con un regime che delle libertà in generale, e della libertà sindacale in particolare, aveva fatto carne di porco.
Abdelsselem era egiziano, aveva una decina d’anni più di me (e una decina d’anni meno di lei, signor sindaco), ed era padre di cinque figli. In Egitto faceva il professore. In Italia l’operaio.
È morto – come sapete – nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana: amara ironia della sorte, nel giorno del suo 53° compleanno, che coincideva con il giorno del compleanno di uno dei suoi 5 figli. Che bella festa. È morto con il corpo maciullato sotto le ruote di un camion che si accingeva ad uscire della Seam, un’azienda di logistica dell’indotto Gls, sotto gli occhi sgomenti di suo fratello e dei suoi compagni di lavoro e di lotta.
Lavorava per la società di logistica dal 2003, e vi era occupato con un contratto a tempo indeterminato, mentre la vertenza sindacale che era in corso, in corso anche nella notte in cui è stato ucciso, riguardava il rispetto di un accordo per la stabilizzazione di 8 lavoratori a termine.
Sicché non è esatto dire – come in molti abbiamo fatto – che è morto mentre lottava per i propri diritti, perché, a onor del vero, Abdelsselem lottava innanzitutto per i diritti di qualcun altro, anche se ho motivo di credere che ritenesse ugualmente di lottare, in tal modo, pure per i propri. Per il semplice fatto che, Abdelsselem è morto lottando contro un sistema di esternalizzazioni e appalti che produce, specialmente, ma non soltanto, nel settore della logistica, una barbara concorrenza al ribasso sulle condizioni di lavoro, mettendo i lavoratori, tutti i lavoratori, precari o a tempo indeterminato che siano, uno contro l’altro.
Chi lo ha ucciso?
Io oggi intervengo per rispondere a questa domanda. NOI abbiamo il dovere di rispondere a questa domanda, che, almeno in parte, e forse persino in tutto, prescinde dalla verità giudiziaria che fornirà la magistratura. Perché mentre i giudici saranno condannati a soffermarsi, come in un caso di scuola, sulla frontiera labile e porosa che distingue il dolo eventuale dalla colpa cosciente, a noi spetta – io credo – formulare un giudizio politico sulla vicenda.
Ebbene, io so chi è stato ad uccidere Abdelsselem.
In primo luogo, è stato ucciso dal suo datore di lavoro.

Non abbiamo strumenti per sapere, con certezza, se un dirigente abbia o meno incitato l’autista del Camion a partire. Ma sappiamo per certo che quell’autista è partito, durante una manifestazione sindacale, per una pressione che indubitabilmente avvertiva e che riguardava l’esclusivo interesse dell’azienda a forzare il blocco delle merci, facendo uscire i camion che non uscivano da almeno 2 ore, come ha riconosciuto l’avvocato difensore dell’azienda.
In secondo luogo, è stato ucciso dalla polizia italiana. Perché la polizia, presente ad una manifestazione sindacale notturna, nel piazzale di uno stabilimento, durante una tesissima trattativa sindacale (fatti questi non contestati), o decide di NON fare uscire i camion, perché ci sono lavoratori che manifestano, o decide di farli uscire, assicurandosi che non possano derivarne rischi per l’incolumità dei lavoratori.
È stato ucciso da una legislazione che, nel nuovo secolo, si è impegnata a favorire l’esternalizzazione e la frammentazione del ciclo produttivo – come avvenuto nel 2003 con le modifiche apportate alla nozione di trasferimento di ramo d’azienda – e da un diritto del lavoro che ha mutato di segno: del lavoro gli è rimasto solamente il nome, perché è diventato un diritto pensato per rassicurare i datori di lavoro quando abusano del loro potere, com’è accaduto con il Jobs Act, sicché non è un diritto preoccupato di conformare i comportamenti alle regole di condotta prescritte dalla legge, bensì di rendere prevedibile, oltre che esiguo, il costo degli abusi.
Ma non finisce qui.
Abdelsselem è stato ucciso una seconda, un terza e una quarta volta in pochi giorni.
Dal PM che, il giorno seguente alla sua uccisione, ha avuto la solerzia di affermare che non era in corso alcuna manifestazione sindacali, sicché bisogna dedurre che la polizia e lo stesso lavoratore fossero lì a festeggiare il suo compleanno
Una terza volta dal governo, che ha derubricato la vicenda ad incidente sul lavoro.
Una quarta volta dai direttori delle più grandi testate giornalistiche, le quali hanno evidentemente ritenuto che una morte simile merita lo spazio di un incidente stradale, appunto.
È stato ucciso, ancora, da un movimento sindacale frammentato e rissoso
, che ha espresso valutazioni e reazioni largamente inadeguate su quanto è accaduto, con un picco negativo nelle osservazioni della UIL che ha qualificato i fatti di Piacenza come “termometro di una violenza verbale e anche fisica che sta avvelenando il dibattito politico e il livello culturale del Paese”, il che è persino strabiliante da parte dei una organizzazione sindacale i cui segretari passati e presenti (Angeletti e Barbagallo) sono andati in crociera a spese dei lavoratori.
Ebbene, tra gli ambiti d’intervento delle linee di mandato compare al terzo punto il lavoro.
“La dignità della persona – si legge nel documento – comincia con il lavoro”.
Signor sindaco, non è così. Il tempo in cui il lavoro rappresentava il medium fondamentale per accedere ad una cittadinanza piena è, purtroppo, passato da tanto, troppo tempo
.
Io conosco il dettato costituzionale, e so bene che, per i costituenti, era il lavoro ciò che avrebbe dato accesso ad un’esistenza libera e dignitosa. Ma, per l’appunto, si trattava di un lavoro retribuito in modo equo (art. 36), reso in imprese che – in quanto formazioni sociali – dovevano assicurare il rispetto dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost.), facendo in modo che l’iniziativa privata si esprimesse senza recare danno alla sicurezza e alla dignità delle persone (art. 41, comma 2).
Ebbene, oggi, purtroppo, il lavoro è anche ricatto. Soprattutto ricatto, almeno negli appalti, specie quelli della logistica.
Facciamocene carico. Far tornare al centro il lavoro vuol dire, innanzitutto, cambiare le regole che lo hanno reso povero, debole e ricattabile, cancellando leggi ingiuste come quelle prodotte dall’attuale governo, anche anticipando tali cambiamenti con coraggiose iniziative locali che bandiscano le forme più odiose di precarietà da ogni realtà economica che intrattenga, in un modo o nell’altro, un qualche rapporto col comune di Bologna.

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